Commento

Se la Chiesa si fa ascolto

18 gennaio 2017
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Noi siamo anche la nostra libertà. Dirlo oggi, alla fine del pensiero moderno (illuminista), appare persino scontato. Ma non è così. Prendiamo la Chiesa cristiana. Ci ha impiegato secoli per considerare il libero arbitrio vera espressione di fede; consapevolezza genuina del messaggio religioso. Poi negli ultimi anni il succedersi dei fatti e degli uomini ha quasi spalancato il portone che conduce verso la maturità. Ed era ora, direbbe qualcuno. L’ultima scelta della Diocesi di Lugano per combattere la pedofilia nel clero s’inserisce in questo contesto; nella volontà di “ascoltare le ferite” e dunque la Chiesa ticinese “si fa” ascolto e al contempo rinuncia alle esigenze imposte dall’universalità. Non più il principio, ma l’uomo. Non più la verità che svetta sopra la miseria umana (clericale compresa, per quanto nel caso specifico patologica e criminale), ma il confronto diretto col dolore di chi s’è fidato ed è stato tradito. Non sappiamo – e forse non lo sapremo mai – quante sono e quante sono state le vittime di pedofilia agita da operatori ecclesiali, finalmente però anche la Chiesa locale esce allo scoperto, non si nasconde più, e riconosce nelle vittime i propri errori. Non è cosa scontata – per quanto sarebbe difficile continuare a tacere – in tempi di assolutismo religioso, di immolazioni, di supremazia dell’assoluto che anche da noi, in Occidente, tornino nostro malgrado a far capolino, con drammatica violenza. Ed è anche per questo che la scelta della Diocesi luganese acquista oggi un significato importante. Si dirà, alla buonora. Andava fatto prima. Ed è vero. La vasta campagna d’informazione e d’ascolto lanciata ieri avrebbe dovuto scattare sin dalle notizie del primo caso palesato in Ticino, anche perché la Curia romana già con papa Benedetto XVI aveva chiesto e proposto un severo giro di vite al fenomeno dilagante della pedofilia nel clero. Dunque ci sarebbero state le premesse, poi negli anni rafforzate anche dalla Conferenza dei vescovi svizzeri che già si è mossa a livello nazionale con una specifica commissione d’esperti. E però, l’ha ricordato ieri mattina mons. Lazzeri che è vescovo di Lugano da soli tre anni, c’è voluto tempo. Perché la Chiesa locale, si sa, macina meno acqua. Oggi, finalmente, si ridà dignità a chi troppo a lungo è stato vittima due volte: perché sessualmente abusato e magari perché “inadeguato”, persino colpevole in cuor suo, di aver turbato – lui, la vittima! – l’ordine prestabilito. Come se il prete non avesse un corpo, appunto, da saper gestire. Come se l’uomo che veste i paramenti sacri non provasse emozioni da equilibrare ed elaborare nella volontaria rinuncia. Che poi il celibato si giustifichi, è ancora un altro discorso. Come è vero che a fronte dei colpevoli c’è un intero mondo di preti allibito da tanta miseria e violenza agita da chi veste gli stessi abiti sacri. Un passo che andava fatto, dunque, e meglio tardi che mai. Un passo che riconosce con chiarezza – senza se e senza ma – alla comunità e alle sue leggi il sacrosanto diritto di giudicare tutti gli uomini colpevoli di reati, a prescindere dal loro stato e dalla loro condizione. Perché è nello Stato che la responsabilità individuale si coniuga con la libertà (e dunque il giudizio). La Chiesa dovrebbe tornare ad essere soprattutto ascolto e misericordia; conforto delle anime smarrite e perse, con la forza di chi non teme lo sbaglio e sa porvi rimedio. Con quell’umiltà e disponibilità più volte evocate da papa Francesco.

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