Commento

Politica industriale: fra mantra e chiodi fissi

23 aprile 2016
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Si battono di solito tre chiodi quando si vogliono far presenti le difficoltà per un’industria di insediarsi o rimanere in Svizzera (e tanto più nel Canton Ticino): l’imposizione fiscale scoraggiante, la burocrazia frenante, la politica monetaria penalizzante. Una politica industriale, se così si può chiamare, dovrebbe quindi ridursi ad altrettanti orientamenti rovesciati e quindi: meno tasse, meno Stato, minor peso del franco. Se ne sottace un altro, per tattica, ma lo si applica: meno costo del lavoro. Confederazione e Cantoni investono ogni anno poco più di 5 milioni di franchi per la promozione della piazza economica svizzera. Negli scorsi giorni la Conferenza dei capi di dipartimento cantonali dell’economia ha dato una sorta di indirizzo politico sostenendo che ci vuole una promozione “che punti su un forte valore aggiunto piuttosto che su insediamenti di massa”. Questo del “valore aggiunto” è altro chiodo che sentiamo spesso battere. In Ticino è diventato un mantra politico. Forse perché nel Ticino, proprio per le facilitazioni fiscali, i controlli più sfuggevoli a causa della frontiera, il peso del franco compensato con il minor costo del lavoro, ci si è accorti a un certo momento che stava arrivando un po’ di tutto, più quantità che qualità.
Con imprenditori pronti poi a mollare tutto, come sta capitando, non appena uno dei quattro chiodi finisce storto.
Forse sarebbe giusto chiedersi se gli obiettivi di una politica industriale stiano proprio in quei quattro chiodi ribattuti. Oppure se il problema della promozione della piazza economica stia nel riuscire ad insediare, a suon di fisco, industrie estere.
Cominciamo col dire che se lo scorso anno gli insediamenti di imprese estere in Svizzera sono alquanto diminuiti anche per la scelta politica di più qualità contro la quantità applicata da alcuni Cantoni, è chiaro che sono state poste regole, si sono stabiliti obblighi, ci sono stati interventi statali-amministrativi. Quindi, dello Stato e di un suo indirizzo politico anche discriminante non si può fare a meno se si vuole fare sul serio.
Il problema non sollevato sta però altrove. Negli scorsi giorni il quotidiano romando “Le Temps” ha dimostrato in una sua inchiesta-analisi come “start-up” o industrie promettenti, innovative e d’alto valore aggiunto (quasi tutte frutto di operose ricerche della Scuola politecnica federale di Losanna), dopo inutile elemosinare tra banche, non hanno ottenuto capitali in Svizzera. Per potersi sviluppare si sono trovate aiuti governativi e investimenti in Belgio e Olanda, nella reproba Unione europea. E là si sono insediate, con occupazione di alta qualità, prosperando. Se questo capita in Romandia, figuriamoci nel Ticino dove da mezzo secolo abbondanti capitali hanno sempre preso il volo verso altri paradisi o si sono al massimo incollati al mattone speculativo.
Forse più che al fisco o al minor costo del lavoro, bisognerebbe pensare al rapporto tra banche, loro funzione e territorio. (Banche, come si informava negli scorsi giorni, che preferiscono investire nelle privatizzazioni annunciate per quest’anno nella Russia di Putin, ritenuta meno rischiosa).

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