L'analisi

Perché adesso tocca all’Iran

8 giugno 2017
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L’Isis ha attaccato Teheran perché l’Iran è il Paese mediorientale che con maggiore zelo combatte i gruppi jihadisti sunniti, e che con vasto impiego di forze (e risultati conseguenti) combatte lo Stato islamico sui fronti siro-iracheni. In sintesi estrema, questa potrebbe essere una lettura dell’attacco di ieri contro il parlamento e il mausoleo di Khomeini nella capitale iraniana.

Una conferma viene anche dalla campagna che da mesi gli organi di propaganda dell’Isis stanno conducendo per fare proseliti nella minoranza sunnita iraniana – che si sente vessata dal potere degli ayatollah – e tra i gruppi che conducono contro il regime una guerra a bassa intensità nelle regioni orientali del Paese. Ma questo è un caso in cui la cornice stessa degli eventi può fornire chiavi di lettura illuminanti, benché contraddittorie.

L’attacco giunge a poche settimane dall’iscrizione dell’Iran in testa ai Paesi sostenitori del terrorismo, ufficializzata da un genuflesso Donald Trump alla corte saudita; e a due giorni dall’isolamento, deciso dalla stessa Arabia Saudita, del Qatar, a sua volta accusato di sostenere le più pericolose organizzazioni terroriste.

La dichiarazione di Trump, affetta da ideologismo ad uso domestico, ha il significato di delega in bianco ai sauditi per la cura dei propri interessi, di quelli statunitensi (e in qualche misura israeliani) nella regione. Qualcosa come mettere la volpe a guardia del pollaio. Riad – cassa di risparmio e accademia ideologica del jihadismo internazionale – è il vero competitor di Teheran: per ragioni confessionali (la rivalità sunniti-sciiti), ma soprattutto per la conquista dell’egemonia geostrategica nell’area.

In questo quadro, il Qatar è la sella su cui si batte per colpire il cavallo: quell’Iran con cui Doha – a sua volta mecenate generosissimo di jihadisti – ha il torto di voler intrattenere rapporti non conflittuali. L’isolamento imposto al piccolo regno è stato un segnale, l’ultimo, a un Iran di cui andava drasticamente ridimensionato l’attivismo tra Iraq e Siria.
Iran che se, da un lato, ha sempre rivendicato il ruolo di capofila delle rivoluzioni regionali, di nazionalismi settari o di alfiere della causa palestinese e anti-israeliana, alimentando guerriglie e destabilizzazione; dall’altro è pur il Paese che più si è impegnato nella lotta all’Isis nei territori su cui questo si è insediato. Non certo per liberare il mondo dai tagliagole, bensì per garantirsi un accesso al Mediterraneo attraverso la Siria del burattino Assad. Ma intanto l’ha fatto. Diventando per tutte queste ragioni un bersaglio obbligato della rivalsa jihadista.

Che questo avvenga mentre alla presidenza degli Stati Uniti dimora quel Trump, e mentre cova in Iran il revanscismo degli ultraconservatori, fa ritenere che siamo solo all’inizio.

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