Società

Per un selfie in più

Vita al tempo dei selfie
(Chris Pizzello)
10 novembre 2017
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‘La tecnologia non è nemica, lo è l’uso che ne facciamo’, dice Alessandro Trivilini. Servono dialogo e consapevolezza, spiega Alicia Iglesias...

Un gruppo di ragazze, “un po’ per noia, un po’ per scherzo” iniziano a scambiarsi foto intime. In fondo, è un gioco, con cui forse dare sfogo all’esibizionismo cui induce la nostra “società dell’immagine”. Il gruppo si allarga, arrivano ad essere una sessantina, tutte 16-17 enni, qualcuna condivide contenuti sempre più espliciti, pure atti sessuali. Finché qualcun’altro, un coetaneo, non decide di diffondere quelle immagini al di fuori del gruppo e se ne perde inevitabilmente il controllo in rete. È quanto successo in una scuola di Modena, un caso purtroppo già visto, anche in Ticino. E che in alcuni casi ha portato a conseguenze tragiche.

Agli albori di una rivoluzione epocale, quella digitale, ancora va sviluppato da parte di giovani e adulti un alfabeto di base attraverso cui interagire in modo sano con gli strumenti di cui disponiamo. Ne è convinto anche Alessandro Trivilini, docente alla Supsi, responsabile del Laboratorio sistemi informativi e ingegneria del software. Eppure, si tratta di sfatare subito un luogo comune: «La tecnologia non è nemica, lo è l’uso che ne facciamo quando non c’è consapevolezza». Ne parlerà anche stasera alle 20 alla Sala multiuso a Melide.

‘Controllare non ha senso’

Anzitutto, per tornare all’alfabeto, si tratta di intendersi sui termini, come spiega Trivilini: «Bisogna fare una distinzione: il sexting è inteso come una relazione attraverso una chat-line in cui due persone, adolescenti o adulte, si scambiano dei contenuti intimi e in cui a un certo punto scatta un ricatto. Il caso di Modena è più difficile da identificare, perché alla base non c’è la volontà di mettere sotto ricatto altre persone nel processo di creazione di questi contenuti di condivisione. Tutto nasce da adolescenti, che fanno un certo uso della tecnologia e volontariamente condividono delle immagini, ma non hanno consapevolezza di cosa significhi il fatto che un elemento di questa condivisione si rompa».

Dunque, l’adolescente che rende disponibili su Internet foto compromettenti di coetanei o coetanee quale reato commette? «In Svizzera questo è perseguibile, si tratta di lesione della personalità altrui. Il problema per gli inquirenti è tornare a ritroso all’origine di questa condivisione, a chi ha lasciato uscire quei contenuti: tecnicamente, anche se non impossibile, è molto difficile, spesso le tracce per risalire a un colpevole portano a server in Paesi dove non esistono regole».

Siamo al grado zero del linguaggio digitale. Qual è la via per avvicinare gli adolescenti? «Nella mia esperienza, avendo fatto molta prevenzione nelle scuole, ho visto un approccio molto didattico: si mostrava come funzionano tecnicamente determinati strumenti e si cercava di spiegare come usarli al meglio, magari impostando dei filtri o dei controlli parentali. Dal mio punto di vista, per le accelerazioni tecnologiche che ci sono state, questi accorgimenti non sono più sufficienti. Anche l’opera di prevenzione deve cambiare, mettere al centro la situazione concreta. Ad esempio il caso “dropbox” accaduto in Ticino nel 2016 andrebbe portato in un’aula magna, per sviluppare con gli studenti una discussione in forma interdiscplinare: c’è il caso vero e ci sono il poliziotto, l’avvocato, il docente, il genitore, l’esperto di tecnologie. Insieme si va a rispondere alle domande e a spiegare le situazioni dal punto di vista tecnico, legale, educativo, comportamentale... È un approccio pragmatico, i ragazzi possono fare domande puntuali e trasversali, immedesimarsi e portarsi a casa un’esperienza concreta legata a una persona. È il procedimento che usano i big della tecnologia: “Metti al centro l’utente e tutto il resto segue”».

E i genitori? «Il primo passo è prendere consapevolezza che è richiesto loro uno sforzo. Prima di imporre delle regole devono scendere di qualche scalino, mettersi al livello dei propri figli in rapporto alla tecnologia, porre loro delle domande e provare a capire come la utilizzano: trovare degli spunti di discussione comune invertendo i ruoli, mettendo i ragazzi nella condizione di spiegare e ponendosi loro in ascolto. È una questione di educazione: rincorrere i manuali, installare programmi per impedire la navigazione, controllare... non ha senso».

Un’educazione alle emozioni

Il caso di Modena impressiona per il numero di giovani coinvolte e le motivazioni espresse dalla ragazza da cui è partita la denuncia. Quali sono dunque gli argomenti a cui affidarsi per fare prevenzione? Lo abbiamo chiesto ad Alicia Iglesias, media educator e operatrice sociale, attiva in Ticino riguardo l’uso consapevole delle tecnologie e in progetti sociali legati ai giovani: «È importante dialogare con i ragazzi rispetto al riconoscere il proprio comportamento nell’utilizzo dei media e nell’impatto che le loro azioni possono avere sulle altre persone e viceversa. Comprendere l’importanza di rispettare gli altri, se stessi e le proprie emozioni, imparando a conoscerle e a riconoscerle. Aiutare i ragazzi a scoprire le proprie risorse per evitare di cadere in determinate situazioni. Diventa fondamentale diffondere un’adeguata informazione, far riflettere i ragazzi sulle implicazioni dell’uso delle tecnologie promuovendone un uso sempre più consapevole e responsabile, aiutandoli a muoversi tra questi mondi – reale e virtuale – strettamente connessi, pieni di relazioni ed emozioni».

Quali sono in questo senso gli errori più frequenti commessi da ragazze e ragazzi? «Non penso si possa parlare di errori. Parliamo di ragazzi e ragazze nati nel 2000, con la tecnologia ben presente nella loro vita fin dalla nascita. Sono adolescenti che agiscono in maniera completamente inconsapevole poiché non riescono a comprendere pienamente i rischi legati a questi comportamenti, primo tra tutti la perdita di controllo delle proprie immagini. Non sono coscienti delle conseguenze che si possono innescare (“web reputation”, adescamento, cyberbullismo) come anche della loro gravità. Oltre a tutto ciò vi è l’aspetto legale, che molto frequentemente è sconosciuto agli adolescenti. Spesso ciò accade per mancanza di confini, come anche per l’abitudine di condividere qualsiasi aspetto della loro vita».

I genitori come possono proteggere i propri figli adolescenti senza diventare troppo invadenti? «Essere presenti, informarsi sui temi legati ai media e soprattutto parlare con loro mostrando interesse verso ciò che fanno. Gli adulti possono aiutare i propri figli a una riflessione critica, abituandoli a ragionare sulle conseguenze delle loro azioni. Diventa importante sollecitare i propri figli verso un ragionamento legato alle emozioni – “come ti sentiresti se…” – e incoraggiarli a parlare e a confrontarsi con gli adulti di riferimento. Sul territorio ticinese vengono organizzati delle serate volte proprio a confrontarsi su questi temi».

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