L'analisi

Pd, sconfitta collettiva

21 febbraio 2017
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«Lei non ha capito nulla del Pd», e si voltò dall’altra parte per sollecitare un’altra domanda, evidentemente più appropriata. Era il 2010. Avevo chiesto a Dario Franceschini, uno dei suoi leader, se non fosse sempre più evidente non la difficoltà ma l’impossibilità di assemblare le ‘anime diverse’ del Partito democratico, quella ex comunista e il cattolicesimo sociale, che tre anni prima si erano fissati l’obiettivo di amalgamare un’unica formazione laica e riformista. Aveva ragione lui, non avevo capito. Me ne rendo conto soltanto oggi, guardando alle macerie in cui è ridotto il veltroniano ‘partito a vocazione maggioritaria’. Non avevo compreso che di mezzo non c’era soltanto uno scontro di lontano sapore ideologico. Ma soprattutto l’inadeguatezza della sua leadership, la personalizzazione della rissa politica, la mancanza di un orizzonte concordato, il vizio antico dello scissionismo. Un solido gomitolo di contraddizioni e contrapposizioni. Una debolezza di sostanza con conseguenze nefaste. Prima (novembre 2011) con il Pd che accetta su consiglio dell’allora presidente Giorgio Napolitano di affrontare elezioni anticipate, nel timore non tanto di perderle ma di dover gestire le riforme sollecitate da Bruxelles per superare la crisi economica e del debito pubblico. Poi (febbraio 2013) con il ‘pareggio’ di Bersani alle elezioni politiche che obbligherà il partito ad allearsi con Berlusconi nel momento di maggior debolezza dell’ex cavaliere. Infine con l’irruzione di Matteo Renzi, il rottamatore che nel giro di tre anni si è auto-rottamato, sbriciolando il 40 per cento dei consensi raccolti nel voto europeo, e andando a sbattere su un referendum ostinatamente e spavaldamente imposto come referendum sulla sua persona, sul suo temperamento, sul suo governo. Non che la riforma costituzionale fosse di principio inutile o del tutto inopportuna, vista la paralisi di istituzioni che sembrano confortare la paralisi di palazzi del potere sempre più screditati e lontani dal senso e dalle preoccupazioni comuni. Ma fu, quel fallito plebiscito, anche un uso improprio di ‘arma di distrazione di massa’. Le priorità erano invece la lotta alla mancata ripresa economica, alla crescita più anemica di Eurolandia, alla disoccupazione soprattutto giovanile, alla crescita di una povertà che risucchia anche parte della classe media, e non potevano bastare i ‘pannicelli caldi’ dei pur utili 80 euro per i salari più bassi. Insomma, ‘it’s the economy, stupid’, fu lo slogan vincente di Clinton contro Bush padre nel 1992. Così, incapace, per volontà, stile e temperamento bullesco, alla mediazione politica per recuperare la risentita minoranza del partito (che autenticamente ‘di sinistra’ non fu nemmeno negli anni di governo del Pds e dell’Ulivo, da d’Alema a Prodi), Renzi porta al macero una parte del centro sinistra con la volonterosa complicità dei suoi rivali interni. Per quale progetto non si capisce: un neo-blairismo fuori tempo, il vagheggiato ‘partito della nazione’, o il cosiddetto ‘progetto macronista’ (dal Macron francese, centrista e indecifrabile candidato all’Eliseo). Sconfitta collettiva di un partito che si lacera mentre il mondo esplode; che si voleva baluardo contro i partiti anti-sistema, mentre sembra che nemmeno le figuracce della sindaca di Roma Virginia Raggi riescano a spolpare il consenso grillino; e che, col sistema elettorale tornato alle cattive abitudini della Prima Repubblica, può rimettere in pista persino l’‘armata brancaleone’ del centro destra.

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