L'analisi

Non tutto finisce a Mosul

(Felipe Dana)
11 luglio 2017
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Basterebbero le fotografie aeree di ciò che resta di Mosul per chiederci che cosa abbia inteso dire il premier iracheno Abadi annunciandone la “liberazione”. Va da sé che ogni sconfitta dello Stato Islamico (che proprio in quella città ebbe la sfrontatezza di autoproclamarsi Califfato) è un buona notizia, ma non abbastanza per essere considerata risolutiva del conflitto in corso in quelle terre, e meno ancora per accogliere come definitiva la narrazione dei fatti diffusa dai vincitori.

A un livello “locale”, la cacciata dell’Isis da Mosul può certamente essere vissuta come una liberazione dagli abitanti rimasti tanto a lungo ostaggi delle vessazioni dello Stato Islamico e dei virulenti combattimenti sostenuti per sconfiggerlo. Mentre per il governo iracheno si tratta di una necessaria affermazione militare e politica. Che tuttavia i “liberati” vogliano o possano attendersi considerazione e trattamento degno da parte dei “liberatori” è almeno dubbio; nella stessa misura in cui non si può parlare di vittoria irachena a Mosul senza considerare il ruolo delle potenze esterne che vi hanno concorso.

Non è un caso cioè che l’Isis sia nato in Iraq. Se sul piano ideologico lo si può definire una filiazione di al Qaida, sul piano dell’organizzazione e del radicamento territoriale, l’Isis è figlio della rivolta sunnita generata, alla caduta del regime di Saddam Hussein, dal radicale sovvertimento del sistema che (complice la stolta politica degli uomini di Bush) ha consegnato il potere in mano sciita. Forzando la semplificazione: all’Iran.

Niente di quello scenario è sufficientemente cambiato per ritenere che il risentimento sunnita sia rientrato; se non per la comparsa dell’Isis (le cui prime vittime sono state le stesse popolazioni sunnite, vessate innanzitutto da quei foreign fighters ubriachi di ideologia) e il tentativo delle coraggiose forze curde di volgere a vantaggio della propria causa la destabilizzazione nell’area.

E per le stesse ragioni la partita per Mosul è esemplare della dimensione sovraregionale del disastro siroiracheno. Se al ruolo dei peshmerga curdi e dell’Iran si è già accennato (non di sicuro limitato a Mosul) basterebbe scorrere il lunghissimo elenco dei Paesi presenti direttamente o indirettamente sul fronte e nei cieli della battaglia per averne un’eloquente conferma. Il problema, dunque, è che la sconfitta dell’Isis è solo la condizione per dare corso a obiettivi strategici ben divergenti, se non opposti e conflittuali. All’origine di un successivo conflitto non meno devastante.

L’altra questione è il destino dell’Isis e come questo si rifletterà sui territori che controllava o ancora controlla, ma anche sui “fronti” che i suoi strateghi hanno aperto fino in Europa. La sua sconfitta militare non è ancora una sconfessione ideologica o di credibilità tale da far cedere le armi alle migliaia di militanti dispersi, o da far ricredere l’estesissima “zona grigia” che gli fa da retroterra nel Levante e in certe aree d’Europa.

Inoltre, secondo non pochi analisti, la disfatta militare accentuerà da un lato un’attività di terrorismo pulviscolare un po’ ovunque; e soprattutto favorirà la restituzione ad al Qaida del primato ideologico e operativo all’interno dell’universo jihadista. In altri termini: la sconfitta del Califfato confermerebbe le ragioni dell’organizzazione fondata a Bin Laden, che non considerava affatto l’opportunità di insediarsi come potere statuale, privilegiando al cuore della propria strategia la guerra all’Occidente e ai suoi sodali. Gli sconfitti di Mosul, li rivedremo cioè presto altrove. Quanto ai vincitori, abbiamo già visto di che cosa sono (in)capaci.

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