Commento

Negozi e negoziati

28 aprile 2017
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Quando domani la signora Gianna potrà andare per negozi una mezz’ora in più, il signor Carlo, suo marito, dovrà ringraziare o prendersela soprattutto con la politica.

Lo stesso vale per Franco, che fa il commesso e rimarrà trenta minuti in più dietro il bancone, potendo però finalmente contare su un Contratto collettivo di lavoro che lo tutela. Dovrà ringraziare o prendersela soprattutto con la politica. Perché la nuova Legge sull’apertura dei negozi e il Contratto che la accompagna – e di cui riferiamo oggi a pagina 3 – sono figli di una decisione voluta con forza dalla maggioranza del Gran Consiglio. Figli un po’ illegittimi, a dirla tutta: l’impianto sul quale si basa la normativa – ossia l’accompagnare l’estensione degli orari all’esistenza di un Ccl di obbligatorietà generale – rappresenta una forzatura dal profilo giuridico. Una forzatura che rischierebbe di venir cassata da un qualche ricorso. Tant’è. La via scelta per sbloccare un dossier rimasto incagliato per una ventina d’anni tra veti incrociati e ‘no’ popolari non è certo la migliore, ma forse l’unica percorribile. Grazie alla quale è stato possibile mettere d’accordo rappresentanti dei datori di lavoro e dei salariati: parti impegnatesi a fondo negli ultimi mesi a tradurre in realtà quanto votato dai cittadini, sotto l’egida del Dipartimento finanze ed economia di Christian Vitta. Tutto bene quindi quello che finisce bene? Sì e no.

Comunque vada, il contratto collettivo sottoscritto da padronato e sindacati – senza, va sottolineato, l’assenso di Unia – verrà verosimilmente dichiarato di obbligatorietà generale e sarà realtà per almeno quattro anni. Una base importante e sulla quale si spera il partenariato sociale edificherà un settore del commercio più solido. Bene anche perché questo settore, in difficoltà poiché costretto oramai da anni a confrontarsi con un’agguerrita concorrenza in rete e oltre confine, riceverà un po’ di ossigeno: i nuovi orari e, soprattutto, un quadro legale chiaro e non più basato su continue deroghe permetteranno ai commercianti di pianificare meglio la propria attività. Troppo poco per alleggerire del tutto il peso del franco forte, ma pur sempre qualcosa.

Non convincono per contro alcuni contenuti del Contratto collettivo. Cominciando dai salari minimi: tremiladuecento franchi al mese è una somma che non permette di vivere in Ticino. Poi vero: si tratta di una cifra superiore di duecento franchi a quanto corrisposto nei piccoli negozi per i quali è attualmente in vigore un Contratto normale di lavoro. E vero anche che nella grande distribuzione le condizioni contrattuali sono – e si spera continueranno a essere – di gran lunga migliori a quelle pattuite tra le parti sociali. Quando in futuro si tornerà forse al tavolo delle trattative, la ‘variante salario’ andrà tuttavia ricalibrata. Preoccupa infine che per raggiungere risultati la politica cantonale si spinga sempre più ai limiti della legge. Amnistia fiscale cantonale, tassa di collegamento, casellario giudiziale, blocco dei ristorni, legge artigiani e così via: esempi molto ticinesi e poco svizzeri. E che, a conti fatti, rischiano di costar caro alla voce ‘credibilità’. Prima o poi anche la signora Gianna, il signor Carlo e Franco potrebbero accorgersene.

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