L'analisi

L’emergenza nelle urne francesi

22 aprile 2017
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In una cornice resa drammatica dalla sanguinosa “dichiarazione di voto” dell’Isis, quattro candidati alla presidenza della repubblica francese si tallonano nei sondaggi in percentuali talmente vicine da rendere dubbio ogni pronostico.
Quattro aspiranti presidenti che si pretendono in discontinuità con il sistema consolidato di alternanza destra/sinistra all’Eliseo: Marine Le Pen, Emmanuel Macron, François Fillon, Jean-Luc Mélenchon, per limitarci a loro e alle loro vicissitudini, sono l’immagine abbastanza fedele della mutazione della rappresentanza politica in Francia e, per esteso, in tutte le nostre società.
Poi, si sa, l’immagine è una cosa, la sostanza un’altra. Ma prendiamola per buona, se non altro perché i segni di una rottura con la consuetudine sono stati evidenti sin dall’inizio della campagna. A partire dalla rassegnata rinuncia del presidente in carica François Hollande a ricandidarsi per un secondo mandato a cui avrebbe avuto pur diritto. Una sorta di autoinferto contrappasso per chi, battendolo, impedì a sua volta a Nicolas Sarkozy di bissare il turno presidenziale.
Letta retrospettivamente, la rinuncia di Hollande è stata la spia più certa della crisi socialista. Crisi di cui sono state espressione e insieme vittima dapprima le ambizioni di Manuel Valls, penalizzato, oltre che da se stesso, anche da una forzosa lealtà nei confronti del presidente, che lo ha costretto a ritardare la candidatura ufficiale fino alla rinuncia di Hollande; e poi la sorte di quel Benoît Hamon superfluo vincitore delle primarie socialiste. Superfluo, poveretto, poiché della sua investitura i primi a non curarsi sono stati i dirigenti del partito, quelli che avrebbero dovuto impegnarsi per lui.
Crisi, e veniamo al punto, da cui è invece stato beneficiato Macron, lesto a lasciare il governo socialista (dove occupava il Ministero dell’economia) per metter su En Marche!, il non-partito modellato su di sé, senz’altro scopo che di portarlo all’Eliseo. In questo senso, Macron è l’espressione lampante della post-politica nella sua variante francese. Mai passato al vaglio di una elezione, populista non meno di un Trump o di una Le Pen (che pure un partito ce l’ha) nel volersi liberare degli “strati intermedi”, svincolato da liturgie e strategie partitiche nel rivolgersi direttamente agli elettori come ai consumatori nel quadro di una campagna pubblicitaria. Vagamente europeista, vagamente “né di destra, né di sinistra” (che di solito vuol dire di destra). Vagamente outsider, se così si può dire di chi è stato ministro e le ossa se le è fatte nelle banche che contano e nelle istituzioni su cui poggia la repubblica.
Su di lui si sono spostate non poche dichiarazioni di voto di dirigenti del Ps, una sconfessione plateale di Hamon. La figura del (non)candidato ufficiale socialista potrebbe essere associata a quella di un Jeremy Corbyn che guiderà il Labour britannico almeno fino alle legislative anticipate dell’8 giugno per volontà degli iscritti, ma inviso alla rappresentanza parlamentare dello stesso partito. Hamon neppure quello: il partito lo ha già scaricato prima ancora dell’apertura dei seggi. Ha osato proporre un reddito base universale.
Altro candidato di fatto senza partito è Fillon. Alle primarie dei Républicains ha battuto gente del calibro di Alain Juppé e Nicolas Sarkozy. Tradizionalista cattolico, thatcheriano in economia, residente in un castello, autocelebratosi come l’uomo retto che da tempo la Francia attendeva, ha preteso troppo da sé e dagli elettori. Soprattutto che gli credessero.
La sua corsa si è fermata davanti alle rivelazioni “Penelopegate”: dal nome della moglie che non l’attendeva tessendo la tela, ma fingendo di lavorare per lui come collaboratrice parlamentare, lautamente stipendiata dalle casse pubbliche. Lo stesso i figli. Per non dire dei “contributi” di ricchissimi amici, e neppure tutti presentabili. “Credo che i sondaggi esprimano più un’emozione che una realtà politica”, ha detto per tenersi su. Ma il partito, ormai nel panico, gli ha fatto il vuoto attorno. I sorrisi di circostanza rivoltigli in chiusura di campagna da Juppé e Sarkozy mostravano i denti stretti. E, a parte che i francesi detestano la terminologia anglofona, non era esattamente un endorsement.
Passatista (secondo gli avversari) e insieme proiettato in un improbabile futuro, Jean-Luc Mélenchon, leader di France Insoumise, veste da trotzkista in carne e ossa, ma anche in ologramma, come ha fatto in diverse occasioni, tenendo un comizio in una città, e apparendo simultaneamente in una o diverse altre. Reclama la parte di “diverso”, fuori dai giochi di potere, ma è pur stato ministro e anche lui campa di politica da una vita. Chi aveva pronosticato per lui il ruolo di mera comparsa si è però sbagliato. Mélenchon è andato via via crescendo nei favori dell’elettorato, con un programma che assomma l’accorciamento dell’orario di lavoro, della vita lavorativa, a un aumento dei salari minimi. Vuole l’uscita dal nucleare e dalla Nato, e la rimessa in discussione della forma di adesione all’Unione europea.
Più prudente sulla questione migranti, e lo si può capire, se si dà retta alle analisi dei flussi elettorali secondo cui il voto operaio è passato all’estrema destra anche per le parti (le loro, sembrerebbe) che essa ha preso in questa guerra tra poveri.
L’abbiamo nominata, infine: l’estrema destra di Marine Le Pen è stata fino a poche settimane fa l’oggetto più dibattuto, l’orizzonte sul quale misurare le sorti non più soltanto della Francia, ma dell’Europa. Se è riuscita la Brexit, se Trump si è preso la Casa Bianca, vuoi che la figlia redenta (ma non troppo) del vecchio fascistone Jean-Marie non abbia possibilità di fare il colpaccio?
Lo si diceva fino a poche settimane fa, appunto, prima che Macron lustrasse la propria stella e che quella di Mélenchon reclamasse spazio. Poi la sua parabola ascendente ha invertito la rotta. Forse anche per la storia delle false assunzioni all’Europarlamento dove siede da un pezzo e riscuote una più che buona paga, ricorrendo all’immunità per proteggersi dai procedimenti giudiziari (lei che si vorrebbe la bandiera anti-sistema...).
Non si è scoraggiata. Al contrario, la sua retorica si è rinvigorita. La posata Le Pen presidenziale ha ceduto il posto a quella da trincea: fuori dall’Europa, frontiere chiuse ai migranti e soprattutto lotta senza quartiere all’islam, argomento che premia sempre. E che ogni proiettile sparato dal kalashnikov di un invasato islamista rafforza. Non è facile essere una Le Pen, disse Jean Marie alle figlie, ma quella che vi riesce ne sarà ripagata: magari con il passaggio al secondo turno, come riuscì appunto al babbo. Allora, era il 2002, il “fronte repubblicano” insorse ed elesse Chirac. Quindici anni e molti più attentati dopo ci risiamo.

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