Commento

Le zone grigie di un bel successo

13 novembre 2017
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Per capire la portata del traguardo tagliato dalla Nazionale rossocrociata, la conquista di un tagliando per i Mondiali di Russia, giova ricordare che l’edizione del prossimo anno rappresenta il settimo grande torneo al quale la Svizzera accede dagli Europei del Portogallo (su otto edizioni, all’appello mancano solo gli Europei del 2012). È il nono (su tredici eventi) dal lontano 1994, anno della Coppa del mondo statunitense, apice del ciclo affidato a Roy Hodgson.

Insomma, la frequenza con la quale gli elvetici si portano a casa il diritto di misurarsi con il meglio del calcio, che sia a livello continentale o mondiale, è da grande squadra. La buona sorte – a volte anche sfacciata – mitiga leggermente la soddisfazione che scaturisce alla semplice lettura delle statistiche, ma non cancella quanto i numeri dicono: la tendenza è positiva, la qualificazione è diventata una prassi, benché scontata non sia.

In passato l’abitudine la si faceva all’eliminazione, consolandosi con la sconfitta onorevole buona solo per perdenti che faticano ad ammettere di esserlo. Esserci continuamente, quindi, è un passo avanti, una conquista, lungo un processo di crescita inequivocabile. Per dirsi grande, però, alla Svizzera continua a mancare qualcosa. Al netto del valore di una squadra che sa farsi rispettare, forte quanto basta per prevalere sulle piccole (e non si dica che non ce ne sono più, di piccole...), capace di tenere il campo anche contro le grandi (sì, qualche grande c’è ancora), la selezione rossocrociata non riesce a compiere un ulteriore salto di qualità. Bene, a volte anche benissimo, ma senza quel guizzo che, tanto per restare in tema qualificazione, le avrebbe permesso di entrare in Russia dalla porta principale, senza chiedere il visto emesso dallo spareggio. Portogallo battuto, sì, ma rimasto lì, a stretto contatto, pronto a riprendersi lo scettro, alla prima occasione. E l’occasione è arrivata, a Lisbona. Dove la Svizzera non è mai giunta per davvero. Un limite, sì. Non inficia il percorso verso i Mondiali lastricato di successi, ma lo rende meno memorabile di quanto avrebbe anche potuto essere, con uno sforzo in più.
Aver messo sotto l’Irlanda del Nord, squadra debole (perché tanta fatica nel giudicarla tale?), è un atto dovuto alla sbandierata crescita di un gruppo che non si poteva certo esimere. Svizzera nettamente superiore, Svizzera qualificata. Un’equazione non così semplice da risolvere, ma nemmeno impossibile. Ecco, questa Svizzera ha imparato a non lasciare per strada quanto è nelle sue possibilità, ma ancora non è pronta per la consacrazione.

Come se mancasse sempre qualcosa. Come se non ne avesse la possibilità. Oggi è giusto celebrare l’ennesima qualificazione, grasso che cola se il confronto andasse davvero fatto con un’altra epoca calcistica, esauritasi più o meno a metà degli anni 90, mortificando la Romania a Usa ’94, spaventando l’Inghilterra in casa sua due anni dopo. Il confronto, però, va fatto con il passato prossimo, segnato dal medesimo ciclo di calciatori che calcano il campo ancora oggi.

Ne consegue che – non ce ne voglia la bella Svizzera di Petkovic, meritatamente qualificata alla fase finale della Coppa del mondo edizione 2018 – gli applausi sono sacrosanti. Restano però innegabili i limiti di personalità che a scadenze regolari emergono ancora. Figli, i primi, di una passione e di un attaccamento che il tecnico bosniaco ha fatto rifiorire, vittoria dopo vittoria. Tipici, i secondi, di una squadra alla quale forse non va chiesto più di così, benché essa stessa si ostini a dire di esserne capace.

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