Inchieste

L’appiglio della prima ora

(Pablo Gianinazzi)
30 maggio 2015
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Circa 120 dossier in media per operatore, ovverosia un abisso rispetto all’esempio particolarmente virtuoso di Zurigo (30 dossier pro capite), ma anche in confronto al carico massimo considerato oggettivamente “sopportabile”, ovverosia 50 dossier per operatore.

Possono molto, queste poche cifre, per inquadrare la situazione all’Ufficio dell’assistenza riabilitativa (già Ufficio di patronato) del Dipartimento istituzioni. Centoventi dossier che idealmente si impilano sulla scrivania di ogni singolo operatore significano un carico di circa 1’000 casi attualmente “sul piatto”; casi che, con tutte le loro problematiche, si dibattono nelle mani di un contingente ridotto a sole 9,4 unità lavorative, più una e mezza di personale amministrativo. Le 7,6 unità di base sono occupate su ben 4 fronti (si veda lo specchietto a pagina 3). A queste ne vanno aggiunte ulteriori 1,8 destinate alle pene alternative come il braccialetto elettronico e i lavori di utilità pubblica.

Uno scenario da rivedere, sospira Luisella De Martini, responsabile dell’Ufficio dell’assistenza riabilitativa. «Tuttavia – dice – ci applichiamo a fondo e al meglio. Uno degli elementi determinanti è il fatto di conoscere le persone già durante il periodo di detenzione e di avere accesso agli incarti. Quindi, almeno di errori nella trasmissione delle informazioni sul profilo degli individui non possono essercene».

Il riferimento, benché indiretto, è a casi limite diventati tragicamente famosi, in Svizzera, come quello di Lucie – la 16enne ragazza alla pari friborghese uccisa nel marzo del 2009 a Rieden da un pregiudicato condannato nel 2003 in prima istanza a 20 anni – o quello di Adeline, la socioterapeuta di 34 anni ammazzata nel 2013 dal detenuto stupratore che la donna stava accompagnando a una seduta di ippoterapia. Casi che, in base alla strutturazione del lavoro e alla tempistica delle prese a carico, molto difficilmente potrebbero verificarsi in Ticino.

Conoscere le persone già durante il periodo di detenzione significa occuparsi di loro sin dalle primissime fasi dell’esperienza carceraria, quando l’individuo «ancora non sa cosa gli stia capitando e soprattutto cosa gli succederà nell’immediato futuro», riflette De Martini. Il che illustra bene come l’intervento dell’Ufficio, previsto al più tardi entro il settimo giorno di carcerazione, debba essere considerato come un autentico salvagente al pari di quello medico-psichiatrico, pure fondamentale per lenire il sentimento di solitudine ed estraniazione che inevitabilmente si abbatte su una larga maggioranza di ospiti delle carceri.

Uno degli assunti alla base dell’impegno dell’Ufficio dell’assistenza riabilitativa è il diritto della società di essere protetta dal rischio di recidiva. Di converso, non meno importante, c’è il diritto primario dell’individuo di essere accompagnato, e sostenuto, in un’espe-rienza totalizzante e in grado di segnare come poche altre. «Lungi da noi il voler fare del pietismo – chiarisce De Martini –, ma è fondamentale, per i nostri servizi, riconoscere cosa significhi per una persona perdere il controllo della propria vita, ritrovarsi in una situazione in cui le “chiavi”, in senso fi-gurato e non, sono in mano agli altri». Ecco allora che – al netto della responsabilità e della colpa che di regola giustificano, dal punto di vista giudiziario, una prima fase di isolamento totale e un susseguente periodo di graduale “ricostruzione” all’interno della realtà distorta del carcere – risulta fondamentale ogni seppur minima fonte di luce che nasca all’esterno e riesca a penetrare per iniziare ad illuminare il cammino verso la riabilitazione alla vita in società. «Nella fase della carcerazione preventiva, quindi prima della celebrazione di un processo che stabilisca colpa e condanna, il nostro obiettivo è tracciare un profilo delle necessità individuali. Le domande da porsi assieme al detenuto che è appena entrato alla Farera sono sostanziali: “Dove mi trovo?”; “Cosa c’è fuori di urgente da sistemare?”; “Cosa posso fare e cosa no?”. Stabilita questa base, è data piena facoltà al detenuto di scegliere se continuare a fare affidamento sui nostri servizi oppure no. E la stragrande maggioranza non rinuncia».

Vengono a questo punto valutate eventuali misure sostitutive della detenzione, che possono poi essere sottoposte al magistrato inquirente sotto forma di progetto di messa in libertà provvisoria. Oppure, se il reato è chiaramente connesso ad uno stato di dipendenza, si può ad esempio pensare al collocamento in un centro terapeutico quale anticipo della misura che il giudice potrebbe confermare in sentenza.

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