L'analisi

La ‘profezia’ di Jihadi John

24 maggio 2017
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Quando “Jihadi John” avvertì i Paesi occidentali che “presto” il disgusto per le teste mozzate nei deserti siroiracheni sarebbe stato sostituito dal pianto per i morti “sotto casa”, la sua parve a molti una millanteria. In realtà la minaccia del tagliagole di provenienza britannica annunciava – non sappiamo con quale grado di consapevolezza – lo scenario che da tempo si sta avverando e che la strage di Manchester sembra una volta in più confermare. E sono diversi gli elementi che concorrono alla sua comprensione.

Uno, di natura “strategica”, è la rotta dell’Isis nei territori in cui aveva insediato il proprio dominio. Da mesi, i combattenti del Califfato subiscono sconfitte e perdite. I fronti, tra Mosul e Raqqa, cedono (seppure non con la facilità pretesa dalla propaganda delle diverse coalizioni), e chi non muore fugge, portando comunque con sé la “missione” per la quale era partito. Spostandosi verso nuovi campi di battaglia nelle terre dell’Islam, o, nel caso dei combattenti giuntivi dall’Europa, tentando un non facile rimpatrio nelle terre dei “crociati”. Per questo – come è stato accertato per recenti episodi di terrorismo – si parla di foreign fighters di ritorno. Temibili per la formazione militare ricevuta e per la consuetudine con la crudeltà a cui le guerre addestrano.
Oltre che su queste “brigate”, l’Isis fa affidamento su un informe esercito di individui più o meno isolati o organizzati in cellule, ai quali è stato ordinato di non partire, ma di fare delle proprie città, dei propri quartieri il fronte del loro jihad. Una mossa strategicamente accorta, poiché alleggerisce l’organizzazione dagli oneri di inquadramento e mantenimento dei combattenti, e si giova della loro diffusione pulviscolare in un ambiente considerato “nemico” ma pur sempre familiare. Ciò che rende difficilmente individuabili i potenziali terroristi, e ugualmente problematico fermarli “prima”, sulla base di una mera affiliazione ideologica.

A tutti costoro, gli strateghi del jihad hanno inviato disposizioni per agire con ogni mezzo, meglio se non individuabile come arma, si pensi a un’auto o a un coltello da cucina. O a un ordigno pur rudimentale, come sembra essere stato il caso di Manchester. Ovunque, ma soprattutto nei luoghi di più frequente affollamento: stazioni, stadi, sale da concerto, mercati. Una sorta di esternalizzazione del rischio, su cui è facile apporre una rivendicazione a costo zero, ma dal riflesso propagandistico straordinario.

Ma questo elemento nuovo, benché già noto agli analisti più attenti, non si esaurisce in sé. Secondo alcuni osservatori è infatti in corso un confronto a distanza (pericolosamente ravvicinata in Siria, meno altrove) tra Isis e al Qaida per assicurarsi la leadership ideologica ma anche operativa della galassia jihadista internazionale. La distinzione che comunemente si operava tra le due sigle – più “territoriale” la prima, programmaticamente deterritorializzata la seconda – sembra essere venuta meno e la battaglia per appropriarsi dello scettro più aspra. Soltanto una decina di giorni fa, Hamza Bin Laden, figlio di Osama, ha esortato i “credenti” a colpire le città dei “crociati”, utilizzando lo stesso vocabolario della concorrenza dell’Isis. Il che, temono le intelligence, potrebbe condurre a una escalation di attacchi. E di vittime.

Che l’attentato di Manchester rientri in questo scenario non è del tutto certo, ma proprio l’incertezza, l’opacità, il velleitarismo servono la causa di chi vi ha già impresso il proprio marchio. Dovremo farvi i conti a lungo.

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