Commento

La partita persa dell’indignazione

17 maggio 2017
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I fattacci di Losone (sabato al termine di un incontro di allievi A sono volati pugni, con il coinvolgimento di ragazzi e adulti) sono figli di una violenza dilagante che ha il calcio quale pretesto; il campo (in senso non per forza figurato) quale ambito in cui sfogare repressioni e limiti, partoriti da maleducazione e ignoranza. Date in pasto ai minori, quando a macchiarsi di atti volgari e beceri sono i genitori, o ai genitori stessi, quando i protagonisti sono invece i figli.

Comunque la si voglia vedere, il risultato è lo stesso. La prospettiva che si sceglie nulla toglie alla gravità di un fenomeno non nuovo ma ugualmente fastidioso, che ha costretto i vertici della federazione ticinese a intervenire, per tutelare i propri arbitri. Per preservarne l’incolumità; per lanciare un messaggio che chiede quantomeno di essere recepito. Quanto alla sua efficacia, ci sia permesso nutrire seri dubbi. Anche perché colpisce nel mucchio, penalizzando anche chi non ha nulla da rimproverarsi.
Beh, da qualche parte bisogna pur cominciare. Un turno di sospensione serve quantomeno ad alzare la voce, a esprimere il proprio dissenso attraverso il megafono della misura disciplinare, a dire “basta”, con la giusta forma di indignazione. Purtroppo, però, non riduce né riesce a contenere gli effetti malefici di una deriva che esula dall’ambito sportivo. Che nel rigore fischiato o negato, nel fallo più o meno brutale, nel cartellino giallo o rosso, altro non ha che un pretesto che spalanca le porte a una condotta irresponsabile e grave. Talmente diffusa, ormai, da declassare gli insulti a episodi normali e gestibili. Quasi tollerati. Tanto che un arbitro può augurarsi di essere “solo” mandato a quel paese (o peggio, ma sempre meglio di un cazzotto) per dirsi “promosso”, per tornarsene a casa con l’idea di aver fatto bene. Come se scampare al linciaggio verbale fosse un successo. L’insulto, diffuso e sdoganato, che sia proferito dal minore o dall’adulto, è quindi il male minore, il compagno di viaggio con cui si è imparato a convivere. Talmente svuotato di significato che neppure ci si fa più caso. È andata bene, dai, alla prossima. Grave, gravissimo, ma è proprio così. Purtroppo non c’è provvedimento che tenga, o sospensione che lasci il segno.

Per quanto doveroso possa essere, è anche scontato che sull’onda dell’indignazione si alzi la voce, si urli al ritorno ai valori che furono, si varino misure più o meno punitive. Il problema è che l’onda bagna l’arena, magari la infradicia, ma in pochi secondi si ritira verso il mare. Lascia traccia di sé, ma sole e vento se la portano via in un batter di ciglia. Svanito l’effetto indignazione, rientrata l’ondata di perbenismo, ascoltati i doverosi inviti alla fratellanza e ai valori dello sport (oggi come ieri violentato da qualsivoglia volgarità), la ruota tornerà a girare, con gli scricchiolii sinistri della maleducazione imperante e dell’ignoranza.

È un problema sociologico e culturale, di fondo. Non è possibile ridurlo al calcio, o allo sport più in generale. E come tale non lo risolverà la solita levata di scudi, per quanto decisa e auspicabile questa possa o debba essere.

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