Commento

L’interpellanza in una bottiglia

29 ottobre 2016
|

Per la nostra politica il passato è spesso da sorvolare (per gli errori, per le promesse non mantenute?), il presente è un tentativo continuo di sbrogliare la matassa (indebitamento) o di ribattere chiodi che sono anche investimento elettorale (occupazione, frontalieri, migranti, bilaterali, Berna), il futuro è sempre con un occhio alle elezioni che nonostante la periodicità quadriennale non danno mai tregua. La politica dovrebbe prendere qualcosa dall’economia e dalla finanza. Accumulare l’esperienza del passato, un capitale per evitare errori; fare del presente un investimento, con rischio calcolato, per trarne un profitto che sia bene comune. Anche non immediato, ma certo. In realtà, del capitale esperienza si tiene poco conto. Fare del presente un investimento è necessario, ma frena la cappa dell’indebitamento. Nei confronti del quale ci sono comunque due atteggiamenti. L’uno piuttosto contabile, con connotazione ideologica: la parità di bilancio si raggiunge solo riducendo la spesa; l’indebitamento costa, grava sul bilancio, chiama quindi maggiori contributi, da evitare. L’altro, che è pure solo contabile, si potrebbe definire etico: non è giusto addossare il debito sulle generazioni future.
Qui può entrare una già dimenticata storia cantonale che insegna molte cose. Ce la racconta il protagonista maggiore in un corposo volume sui suoi ricordi da poco apparso. Paolo Poma, morcotese, impiegato della posta, parlamentare socialista, già presidente del Gran Consiglio, ha combattuto per oltre vent’anni contro l’inquinamento delle acque dei laghi e dei fiumi, pretendendo serie politiche di salvaguardia e impegnative opere di depurazione. Lo fece anche a livello transfrontaliero (chiese persino che le rimesse dei frontalieri fossero assegnate ai comuni limitrofi italiani con l’obbligo di utilizzarle nelle opere di depurazione). Fu deriso, sbeffeggiato, considerato maniaco lacustre. Sostenuto dall’inizio da pochi deputati (lo capirono e lo sostennero due liberali: Barchi e Salvioni). Fece clamore una sua denuncia simbolica, ma concreta (novembre 1981): portò una bottiglia di acqua quasi melmosa prelevata nel Ceresio, sotto l’occhio di alcuni colleghi deputati, e la presentò esasperato in Gran Consiglio dicendo: “Questa bottiglia è la mia interpellanza; non mi sono rimasti altri mezzi per farmi capire”. Riuscì a farsi capire nel 1983, dopo vent’anni di battaglie, ottenendo con un suo rapporto l’unanimità del parlamento che accettava finalmente un investimento di 30 milioni annui per tre anni per sanare laghi e corsi d’acqua. Tre lezioni-valori si ricavano da questa storia dimenticata. La concretezza, la lungimiranza, la tenacia di un politico (allora semplice impiegato di posta) nella difesa di un bene comune, l’acqua. Un simbolismo politico (la bottiglia) molto concreto, che stride con gli attuali, nell’interesse e per il benessere di tutti, e non contro qualcuno o per accalappiamento elettoralistico (ratti e pecore). Il coraggio politico di un forte investimento (e già allora l’indebitamento era tema corrente) perché si trasmetteva alle generazioni future non un peso ma un patrimonio di incalcolabile valore (che a trent’anni di distanza ora possiamo goderci). Qualcosa da imparare c’è per il Ticino di oggi.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔