L'analisi

L’Expo che non c’è

4 maggio 2015
|

“Mostra una patata di medie dimensioni, spiega che è tutto quanto possono mangiare in un giorno, e vedrai che capiranno”. Fu questo il suggerimento di un esperto svizzero presso la Fao (Agenzia Onu per l’agricoltura e l’alimentazione), a cui avevo chiesto come potessi spiegare con un esempio concreto cosa significhi la malnutrizione che, secondo la rivista scientifica ‘Lance’, uccide ogni anno tre milioni di bambini, sugli oltre 800 milioni di persone che soffrono la fame. Così, sette anni fa, quando Milano conquistò l’organizzazione di Expo 2015 puntando sul tema ‘Nutrire il pianeta’ (le prime righe del dossier distribuito alla stampa fanno esplicito riferimento all’impegno contro la fame nel mondo) sembrò che si fosse imboccata la strada giusta, uno strappo salutare rispetto alle cementificate e mastodontiche esposizioni mondiali del recente passato, mega-debiti più che risultati duraturi. Ma cosa è rimasto di quella nobile promessa, di quell’ottimo proposito di rivolgere finalmente l'attenzione alla peggiore piaga mondiale, quella di quasi un miliardo di persone che non dispongono di cibo a sufficienza? Poco, molto poco, quasi nulla. È invece rimasto tanto della “grande abbuffata”, della voracità, degli interessi affaristico-speculativi scatenatisi attorno ai 15 miliardi di euro dell’operazione, che hanno segnato la storia di Expo 2015. Fin dal suo “peccato originale”: cioè la decisione, inedita per le esposizioni mondiali, di non utilizzare terreni pubblici (e ve ne era ampia possibilità) bensì di acquistare gran parte di quel milione di metri quadrati su cui si è costruito con affanno e incredibili ritardi. Anche quest’ultimo frutto di paralizzanti scontri politici, infinite trattative per la spartizione clientelare dell’immensa torta, mega sorpassi, spettacolari progetti abbandonati inutili o incompiuti, infiltrazioni di malaffare e criminalità, appalti truccati, inchieste giudiziarie, clamorosi arresti. La grande abbuffata, altro che fame nel mondo. Ci sarebbe poi da capire come quell’iniziale vincolo morale possa conciliarsi e realizzarsi con la massiccia presenza e sponsorizzazione, nei vari padiglioni, delle principali multinazionali (da McDonald’s a Coca-Cola, da Monsanto a Nestlé, Syngenta, Dupont e altre) che, denuncia la nota attivista e ambientalista indiana Vandana Shiva, “si sono messe d’accordo per brevettare i nostri semi, influenzato la ricerca scientifica, negato ai cittadini il diritto all’informazione attraverso leggi sulle etichettature degli Ogm, de-forestato e inquinato, distrutto i nostri terreni e le nostre colture, e oggi sono tutte dentro l’Expo”. Per non parlare della presenza a Milano di Paesi che praticano massicciamente il ‘land grabbing’, cioè l’acquisto di terre coltivabili in Africa e in Asia, per garantirsi riserve alimentari e prodotti con cui rifornirsi di bio-carburanti. “Acquisti compulsivi di terreni fertili nelle zone più povere del pianeta”, è il più recente allarme dell’Onu: bassi prezzi di vendita, corruzione delle classi dirigenti, contadini espropriati e destinati a gonfiare le misere periferie delle megalopoli, fine dell’agricoltura familiare. Mentre si calcola che la terra dei poveri venduta in tutto il mondo negli ultimi dieci anni (pari a un’area grande almeno 15 volte la Svizzera) eliminerebbe l’attuale denutrizione. Tutto questo (e non solo il semplice varo di una Carta contro lo spreco alimentare, tema infruttuosamente discusso da anni) dovrebbe essere al centro dell’attenzione di un’Expo che proclama la volontà di “nutrire il pianeta” e rischia invece di trasformarsi semplicemente in una furbesca e universale rassegna gastronomica.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔