L'analisi

I sogni della ‘reconquista’

21 agosto 2017
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Cosa si nasconde dietro alla “tragica litania jihadista” formula a cui è ricorso il quotidiano ‘Le Monde’ per commentare l’ennesima strage di matrice islamista? Perché la sconfitta ormai prossima dell’Isis in Iraq e Siria non ha alcun impatto sull’ondata di terrore intensificatasi dopo la carneficina nella redazione di ‘Charlie Hebdo’, nel gennaio di due anni fa?

Le risposte univoche non rendono conto della complessità del fenomeno. Ma nelle analisi a volte contrastanti di chi studia da anni il fenomeno jihadista appaiono delle costanti. L’obiettivo più spettacolare del commando che ha seminato morte in Catalogna era – stando agli inquirenti – la Sagrada Familia, basilica capolavoro di Antoni Gaudì. Non solo uno dei luoghi turistici più visitati di tutta la penisola iberica, ma il simbolo stesso della civiltà cattolica spagnola. Quella di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia che alla fine del XV secolo riconquistò Granada e che con Filippo III all’inizio del ’600 decretò l’espulsione di tutti i ‘moriscos’ che non si erano convertiti. Per i jihadisti (ma pure per molti predicatori musulmani non ‘radicalizzati’) Al-Andalus è di fatto terra di Islam (Dar al-Islam) anche se al momento è terra degli infedeli (Dar al-Harb, dimora della guerra). Obiettivo è dunque la riconquista di quelle terre che furono islamiche dall’VIII al XV secolo. Che ‘Al-Andalus’ sia terra di jihad lo attesta l’enorme numero di terroristi arrestati negli ultimi anni, in buona parte di origine marocchina.

Si conferma così una delle tesi della (contestata ma celeberrima) pubblicazione ‘Lo scontro di civiltà’, in cui lo storico e consigliere del presidente Jimmy Carter, Samuel Huntington, avanzò 20 anni fa la tesi che con la fine del mondo tripolare (Usa, Urss e non allineati) avremmo assistito a un ritorno dirompente di fattori culturali, storici e identitari nella geopolitica.

Anche l’esistenza di un’internazionale del terrore islamista, pur sotto forma di cellule che spesso agiscono in relativa autonomia, è ormai confermata dall’ininterrotta serie di massacri (da Parigi a Berlino, da Stoccolma a Londra), smentendo le tesi di chi legge il fenomeno terroristico esclusivamente in chiave sociale.

Eppure anche una lettura sociologica non può essere esclusa: sono spesso le terze generazioni di immigrati, prevalentemente maschi giovani, delle periferie, ad infoltire i ranghi del terrorismo e dei ‘foreign fighters’. Uno studio appena condotto in Francia dall’Università di Science Po su 13 condannati per terrorismo evidenzia tra l’altro un’adesione tardiva all’Islam – è il fenomeno dei ‘born again’ musulmani –, conversioni ‘fai da te’ via Internet (dove i migliori offerenti sono predicatori salafiti e movimenti fondamentalisti finanziati dai ‘nostri amici’ sauditi e qatarioti) e un’ideologia marcatamente maschilista.

Quanto alle responsabilità intrinseche della religione musulmana, ci si addentra in un campo minato molto insidioso: l’equazione Islam = terrorismo è assurda semplificazione, ma anche quella speculare che associa l’Islam alla pace appare fuorviante. Come ha scritto il grande studioso musulmano riformista Abdennour Bidar, ci si deve infatti chiedere perché il mostro del terrorismo si annida proprio in quella religione: bisogna purtroppo constatare che i suoi appelli a una profonda riforma del pensiero religioso nel senso della tolleranza e dell’illuminismo sono rimasti finora del tutto inascoltati, e non solo dai terroristi.

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