Svizzera

Io, internato in Ticino

Gli interni dell’istituto Von Mentlen di Bellinzona come era un tempo
26 novembre 2015
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Strappato a sua madre, collocato a Pura da bebè perché figlio illegittimo. Diventa educatore e dirige un istituto. Oggi Sergio Devecchi è in pensione, vuole aiutare chi era internato, come lui, in Ticino. Abusi, lavori forzati dall’alba alla sera, inter­minabili ore di preghiera... infanzie rubate che il Ticino deve saper ricordare come fanno altri cantoni. ‘Io ce l’ho fatta, ma tanti altri sono finiti in miseria’.

Un senso di vergogna gli ha impedito di parlare per tanti anni. Oggi Sergio Devecchi è in pensione, pedagogista, ha diretto un istituto a Zurigo, presieduto la Società svizzera di pedagogia sociale, sempre celando il suo passato di figlio illegittimo cresciuto in orfanotrofio tra Ticino e Grigioni. «Sono state esperienze talmente prostranti che mi è stato impossibile parlarne prima. Ho fatto il mio lutto, ma altri bambini che erano in istituto con me in Ticino, oggi sono adulti che ancora soffrono per i maltrattamenti subiti. Non parlano perché si vergognano, perché il Ticino è piccolo», dice Sergio Devecchi che si ingaggia per far conoscere la storia di quegli anni. Nato il 2 ottobre del 1947 a Lugano, resta con sua madre un paio di giorni: «Sono un figlio illegittimo, strappato a mia madre per ordine delle autorità, sostenute dalla Chiesa. A Lugano, quelli come me, dovevano sparire, finivano in orfanotrofio». All’oscuro della madre, Sergio Devecchi, viene portato all’istituto ‘Dio aiuta’ di Pura, dove resta fino all’età di 11 anni. «Si pregava e lavorava finché era buio. A 5 anni ero in stalla, nella vigna da mattina a sera. C’era poco da mangiare. Quando ho iniziato la scuola in paese, ho capito, che esistevano una mamma e un papà. Mi sono sentito diverso dai compagni», dice. Ricorda un’educatrice ‘down’: «Lei mi ha salvato, è l’unica che mi abbia comunicato affetto, per gli altri c’erano solo la Bibbia e il lavoro». Una vita dura, segnata anche da abusi sessuali. «Il primo è avvenuto a Pura, avevo 9 anni. Ne sono seguiti altri nei Grigioni da parte di educatori. Li ho denunciati al direttore, ma mi sono preso una sberla. Nessuno mi credeva. Nel mio lavoro di educatore e direttore ho fatto di tutto per evitare che succedesse ad altri», dice.
A 11 anni, viene spostato da Pura al Von Mentlen di Bellinzona. «Nessuno mi ha spiegato perché. Ero come un pacco». Adattarsi alla nuova struttura non è facile. «Appena potevo scappavo, volevo tornare a Pura dove era dura, ma avevo lasciato gli amici e la mia mucca preferita. Quella era la mia unica casa». Viene fermato più volte dalla polizia sul Monte Ceneri. «Gli agenti mi portavano a pranzo, mi davano la cioccolata, una volta sono stato con loro sulla volante tutto il pomeriggio. Sono i ricordi più belli del Ticino». Dopo pochi mesi, viene trasferito al Santa Maria di Pollegio. «Eravamo stipati in 30 in una stanza, dietro una tenda dormiva il prete, mi ricordo le tazze in alluminio, il caos in refettorio e le interminabili ore a pregare. Erano molto severi. Appena potevo scappavo». Resiste poco, viene spostato all’istituto ‘Dio aiuta’ a Zizers, nei Grigioni, dove lo rinchiudono in una stanza senza vestiti, per togliergli la voglia di scappare. «Mi hanno rubato l’infanzia. Non si giocava. Violenze e abusi erano quotidiani, vivevi nel terrore di essere la prossima vittima. La sera se c’era rumore in camerata, ci facevano camminare per 3 chilometri nella neve a piedi nudi. Quando rientravi piangevi dal male». Ma grazie alle sue capacità, la direttrice decide di farlo studiare: «Ero l’unico su sessanta ragazzi che usciva per andare a scuola. Mi alzavo alle 5.30, c’erano i lavori in stalla, la colazione, poi la scuola. Puzzavo sempre di letame e mi scherzavano. Poi la sera si lavorava fino alle 20». L’istruzione dà una svolta alla sua vita, finché il Canton Ticino smette di pagare per il suo internamento e si trova in strada. «Avevo 17 anni, ero solo, sono tornato a Lugano, dove ho iniziato un tirocinio: mi davano 80 franchi, a metà mese non avevo più i soldi per mangiare». Sarà un assistente sociale ad aiutarlo indirizzandolo a Basilea dove studierà pedagogia sociale. E la sua vita prende finalmente quota. Ma non è stato così per tanti altri internati in Ticino. (Al tema dedichiamo alcune pagine. Per intervenire: simonetta.caratti@laregione.ch ).


L'appello

Strappato da mia madre a Lugano: la Città mi aiuti a ricostruire

Sergio Devecchi, 66 anni, vuole sapere chi ha segnato così duramente il suo destino: «È stata una decisione del parroco a Lugano, sostenuto da mia nonna, ma vorrei ricostruire il mio passato. Spero che la Città di Lugano mi aiuti, forse avrò finalmente delle risposte». Come tanti altri bimbi internati in Ticino, Devecchi si sente un uomo senza storia, non sa neppure chi è suo padre. Eppure lui, una madre l’aveva a Lugano. Perché lo Stato gli ha rubato l’infanzia? «Negli archivi del Dipartimento opere sociali, grazie all’aiuto dell’ex ministro Patrizia Pesenti, ho trovato un foglietto con scarabocchiato il mio nome. C’era scritto, figlio illegittimo». Negli istituti dove è stato internato non ha avuto grande fortuna. Troviamo apertura però dall’istituto Von Mentlen a Bellinzona: «Qui abbiamo i dossier di ogni ragazzo ed è accessibile agli interessati», promette l’attuale direttore Carlo Bizzozero, che incontrerà Sergio Devecchi. Bisogna vedere che cosa resta in cantina, perché in Ticino è dagli anni 60 che c’è l’obbligo di documentare tutto. Prima, veniva fatto in modo sommario. Restano poche tracce di quelle migliaia di innocenti (bambini e bambine) imprigionati, costretti ai lavori forzati, privati dei genitori, che spesso venivano obbligati ad abortire solo perché non erano sposati, perché erano poveri, perché si comportavano in modo strano, perché erano figli di nomadi, o ribelli. Si chiamavano «internati amministrativi». A decidere non era un tribunale, ma un giudice di pace, o un ‘notabile’ del luogo: il sindaco, il notaio, il prete, un istitutore, un commerciante. Nel Paese che ospita il Consiglio per i diritti umani dell’Onu gli abusi durarono almeno fino ai primi anni 80. «Tanti internati come me in Ticino, oggi hanno grossi problemi. Io non chiedo nulla allo Stato, ma tanti altri hanno bisogno. In Ticino questo tema va affrontato dalla politica, come fanno altri Cantoni che hanno chiesto scusa alle vittime», conclude.

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