Svizzera

Infanzie rubate pure in Ticino

Oltre 20mila vittime innocenti sono ancora vive: bimbi tolti ai genitori, internati in Svizzera o vittime di adozioni forzate
26 novembre 2015
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Bimbi strappati ai genitori, incarcerati, messi a servizio da contadini, internati in psichiatria... Migliaia di vittime. Per loro è stato attivato ieri il fondo di aiuto immediato. Vite spezzate dallo Stato. E in Ticino emergono le prime storie: Elisabetta, 70 anni, è stata sterilizzata a sua insaputa...

Decine di migliaia di innocenti (bambini e bambine) privati dei genitori naturali, dell’istruzione, imprigionati, collocati a servizio e costretti ai lavori forzati in fattorie, piazzati a forza in istituti, in penitenziari; madri obbligate ad abortire e sterilizzate solo perché non erano sposate, erano povere, vedove, ribelli o appartenenti a una cultura che non era quella dominante, ad esempio di etnia nomade. A decidere spesso non era un tribunale, ma un giudice di pace, un notabile del comune: il sindaco, il notaio, il prete o un istitutore. Questo avveniva in Svizzera fino al 1981. Anche in Ticino, come testimoniano le prime storie che stanno emergendo. Lunedì abbiamo pubblicato la testimonianza di Sergio Devecchi, 66 anni, figlio illegittimo nato a Lugano e internato in Ticino, dove ha subito abusi e umiliazioni. Oggi, l’uomo si chiede perché il parroco e le autorità di Lugano l’abbiano strappato a sua madre: lui che una madre l’aveva. La signora Elisabetta M., 70 anni, ricorda invece quando adolescente in Ticino è stata sterilizzata a sua insaputa: la sua unica colpa era di avere un padre nomade della Valle Onsernone.
Altre testimonianze sono giunte in redazione. Chi chiama vuole l’anonimato perché si vergogna, si sente solo, perché in Ticino questo tema è ancora tabù: «Mio padre è rimasto senza sua madre da piccolino. È finito prima all’Istituto Santa Maria di Pollegio (dove ha subito maltrattamenti e abusi) poi in una famiglia contadina del Piano di Magadino. La signora era la padrona. Quelli come lui, li chiamavano i famei», racconta un uomo del Sopraceneri. E aggiunge: «L’ho sempre visto depresso, non si è mai ripreso. Oggi mio padre ha 75 anni». Vite spezzate, infanzie rubate e in Ticino siamo solo all’inizio di un lavoro di elaborazione collettiva, doverosa verso chi oggi soffre ancora. Per chi ha subito gravi torti, è stato istituito un fondo di aiuto immediato, che è stato attivato ieri dalla Confederazione (vedi sotto). È un brutto risveglio per mamma Elvezia. Per anni la gente ha chiuso gli occhi davanti alle denunce di pochi, che volevano infrangere un glaciale muro di silenzio. Ma ora sono centinaia i sopravvissuti che raccontano le stesse atrocità: adozioni forzate, abusi, sterilizzazioni. Centocinquanta libri scritti dalle vittime; il regista Markus Imboden ha preso ispirazione per il film svizzero di maggiore successo degli ultimi anni ‘Der Verdingbub’; una mostra itinerante (www.enfances-volees.ch) con 300 racconti e fotografie d’epoca (a lato quelle di Paul Senn) ha fatto tappa in una decina di città svizzere. Ora la Confederazione vuole riscrivere un capitolo oscuro della sua storia e risarcire le vittime. «Siamo in un processo di ricostruzione, per anni è stata sottovalutata l’ampiezza del fenomeno, che tocca tutti i cantoni. Forse in Ticino c’erano meno adozioni forzate in famiglie contadine, ma ci sono state sterilizzazioni, internamenti amministrativi in istituti o penitenziari di bambini tolti ai genitori», spiega Luzius Mader, delegato per le vittime di misure coercitive a scopo assistenziale e vicedirettore dell’Ufficio federale di giustizia e polizia.
Ci sono Cantoni e Città che stanno elaborando questi vissuti che pesano come macigni. Altri invece nicchiano, sentendosi forse un’oasi felice in un mare di melma. Nessun Cantone può chiamarsi fuori. I Cantoni di Berna, Lucerna, Friborgo e Turgovia hanno già presentato scuse ufficiali alle vittime. «Il processo di analisi e la sensibilità variano da regione a regione. È utile che anche il Ticino inizi a parlarne. Ci sono Cantoni molto più attivi. Il governo di Glarona si è appena scusato con le vittime; i Cantoni Lucerna e Turgovia stanno facendo una ricostruzione storica di quanto avvenuto; la Città di Berna sta scandagliando gli archivi per ricostruire i fatti», spiega. Ha giocato d’anticipo il Canton Grigioni:  governo e parlamento, nel 1999, si sono scusati con i nomadi jenisch ricordando che «gran parte dei bambini tolti ai genitori vennero sottoposti a perizie psichiatriche e poi internati in cliniche. È sconvolgente leggere, anche dopo il 1945, le perizie redatte, che usavano un lessico fortemente caratterizzato da argomentazioni razziste».
Chiediamo al Delegato federale chi aiuta quelle vittime che vogliono ricostruire il loro passato. Spesso devono pellegrinare da un Comune all’altro, da un archivio all’altro, trovandosi davanti porte chiuse: «Negli archivi cantonali, di regola, si trovano ancora documenti, anche se talvolta il materiale è andato distrutto. I servizi di riferimento sono appunto gli archivi cantonali e i Delegati per l’aiuto alle vittime di reati. Abbiamo inviato una circolare con chiare direttive: queste autorità devono aiutare le vittime a districarsi negli archivi di Comuni, Cantone o istituti. Tutti sono tenuti alla massima trasparenza», dice Mader. E se le porte dovessero restare ancora chiuse? «Chi non è soddisfatto, può rivolgersi al mio ufficio», conclude.

 

La testimonianza

Sterilizzata nel Luganese ‘Mio padre era nomade’

Ricorda l’estate a Curio, lunghe ore sulle brandine, tutti immobili. Ricorda l’infermeria dell’istituto a Bombinasco, dove le hanno tolto il diritto alla maternità. Ricorda il rumore degli zoccoli di legno lungo i corridoi della scuola. «Chi li portava era un nomade, era un marchio e tutti ti evitavano. Una volta ho alzato la mano in classe, sapevo una risposta e il maestro mi ha umiliata davanti a tutti, dicendo che quelli come noi dovevano stare zitti», dice Elisabetta M., 70 anni. La troviamo grazie all’Ufficio federale di giustizia che sta aiutando decine di migliaia di vittime di misure coercitive. Ci racconta la sua storia, costellata da umiliazioni e abusi tra Ticino e Svizzera tedesca. Lo fa perché in Ticino questo tema è ancora tabù: «Mi rivolgo ai politici, non si può saltare una pagina così buia della nostra storia, è doveroso spiegare ai giovani che cosa è successo in Ticino», dice la signora, che ha pubblicato due libri e sta scrivendo il dramma della sua famiglia della Valle Onsernone.
Padre ticinese, madre giurassiana, Elisabetta nasce nel 1944 a Bienne, terza di otto figli, di cui quattro affidati alla nascita a famiglie adottive o messi in riformatorio. «Crescendo i miei fratelli hanno pensato di essere stati abbandonati, invece lo Stato li ha strappati a mia madre». Elisabetta per contro sta con i genitori, ma per lunghi periodi viene collocata in famiglie di contadini: «C’era una suora che veniva a casa, controllava se stavo bene, poi mi mandava da contadini: lavoravo tanto, ero la serva di tutti, mentre la famiglia mangiava la bistecca a me davano sempre spinaci con un uovo». Invece l’estate la trascorre spesso in Ticino all’ex preventorio di Bombinasco, nel Malcantone: «Ci caricavano sul treno, stipati tra i bagagli. Quell’istituto a Bombinasco era un lager: lavori, rosari e tre ore sdraiati su brandine: al mattino con la pancia in su, al pomeriggio con la pancia in giù. Era proibito parlare e muoversi, non si giocava. C’erano suore, laici e un centinaio di bambini nomadi».
Quando inizia ad avere il ciclo, lo confida a una suora. Un giorno a Bombinasco la portano in infermeria: «Mi dissero di contare le pecorelle che dovevano togliermi l’appendicite. Ho poi scoperto, all’età di 25 anni, che mi avevano sterilizzata, l’appendicite me l’hanno levata tanto tempo dopo», dice Elisabetta. Piange mentre ricorda come in Ticino l’hanno privata del diritto di diventare madre. Sono passati 60 anni, ma quella ferita ancora sanguina. Tra il 1926 e il 1973, Pro Juventute con l’aiuto delle autorità, tolse ai loro genitori 600 bambini di famiglie nomadi: gran parte proveniva da Grigioni, Ticino e San Gallo. Alcuni venivano adottati, ma l’80% venne collocato in istituti e riformatori, pochi ebbero la possibilità di studiare, perché erano considerati (a torto) portatori di tare genetiche. Molti vennero sottoposti a perizie psichiatriche e poi internati in cliniche. La vigilanza sull’operato dell’istituto era nulla. Era opinione diffusa che i nomadi non fossero in grado di educare i figli in modo da renderli ‘membri utili’ della società. Così venivano strappati alle madri, cui veniva vietato di vederli perché avrebbero esercitato un cattivo influsso. Ogni ricorso alla revoca dell’autorità parentale veniva respinto. 
«È il destino toccato a quattro miei fratelli, uno sta in Ticino, sono cresciuti in riformatorio pensando di essere stati abbandonati dai nostri genitori. È stato difficile riannodare i rapporti familiari, c’è molta sofferenza», spiega la donna, che all’età di 60 anni ha iniziato a cercare i suoi fratelli. Solo nel 1986, i dossier sulle tutele di Pro Juventute inerenti al progetto ‘Bambini di strada’, vengono sequestrati e depositati all’Archivio federale a Berna, dove sono consultabili dalle vittime. Ne ha avuto accesso lo storico Thomas Huonker, membro della tavola rotonda istituita da Berna, studia da 25 anni la persecuzione ‘jenisch’, su cui ha scritto vari libri. «L’obiettivo era distruggere questa etnia, tutto è iniziato in Ticino negli anni Venti, c’erano famiglie nomadi a Cureggia e Magliaso: le loro condizioni deplorevoli infastidivano i notabili locali che hanno fatto pressioni sul consigliere federale Giuseppe Motta. Lui ha chiesto a Pro Juventute di occuparsi dei bambini di strada».
Inizia così una pagina triste che culminerà negli anni 70 con le scuse ufficiali di Pro Juventute per la discriminazione della comunità ‘jenisch’: famiglie smembrate, donne sterilizzate, figli collocati in famiglie contadine, dove erano umiliati, maltrattati e sfruttati come braccianti, oppure rinchiusi in istituti per disadattati, perché considerati minorati mentali. «Abbiamo ricostruito quegli anni, in Ticino c’era chi si opponeva sulla stampa alla persecuzione. Grazie a preti e autorità i nuclei nomadi venivano registrati, i figli allontanati con la scusa di formarli, ma al primo problema finivano in riformatorio. Se i genitori reclamavano venivano incarcerati. L’obiettivo era sradicare questa cultura nomade, spezzare ogni legame tra genitori e figli. A decidere era l’autorità comunale o il segretario cantonale. Abbiamo trovato tanti casi in Ticino», conclude lo storico.

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