Commento

Il valore di scegliere

5 agosto 2015
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La memoria può essere fragile, indifesa, forse spietata. In molti avranno già dimenticato il naufragio dell’ottobre 2013, al largo di Lampedusa. Il computo, muto e osceno, diceva: 366 morti, 20 dispersi. Uomini, donne e bambini con una storia, un volto, un nome, dei sogni. Proprio in quei giorni un regista ticinese, un uomo come noi, ha preso un furgone ed è partito. Direzione Mineo, Sicilia, dove c’è il campo profughi più grande d’Europa. Ha attraversato l’Italia da solo, dentro quel furgone carico di doni di decine di ticinesi, per vedere le facce, sentire le voci di quelle persone che ogni giorno si mettono per mare e sfidano il proprio destino. È andato a cercarli nelle strade, sotto il cavalcavia in cui vivono. Il suo viaggio è diventato un film grazie al sostegno di centinaia di persone comuni, ticinesi, che hanno fatto propri la sua curiosità e il suo entusiasmo. Un anno fa, dopo aver lavorato giorno e notte, è riuscito a montare il film giusto in tempo per la selezione del Festival del film di Locarno. Non è stato preso. Questa scelta ha deluso lui e tutti quelli che avevano creduto nel suo lavoro; nella sua urgenza. Ma è stata accettata, perché fa parte delle regole del gioco.
Un festival vero ha una linea e un programma, soprattutto fa delle scelte, a dispetto dei desiderata dei registi, dei produttori e del pubblico.
L’anno scorso nessuna delle tante persone coinvolte in quel progetto ha usato i media per esercitare alcuna pressione sul direttore del Festival, malgrado non condividesse la sua scelta. E malgrado, soprattutto, quel film portasse sullo schermo, con grande umanità, una delle tragedie irrisolte del nostro tempo. In questi giorni, invece, non senza punti esclamativi, leggiamo di richieste di spiegazioni e di inviti a riconsiderare la scelta di non proiettare un film che racconta della persecuzione dei cristiani in Iraq. Un lavoro che non aveva i requisiti per accedere al concorso dedicato ai cortometraggi e che non è rientrato nella sezione dedicata al cinema svizzero, per altro non gestita dal Festival.
Il fatto è che oggi, grazie anche all’agilità dei mezzi tecnici, ci sono sempre più registi che mettono l’anima nel loro lavoro, che indagano con coraggio, magari condizionando la propria stessa vita, temi attuali, urgenti, necessari; come le persecuzioni contro i cristiani o la migrazione epocale di masse di diseredati. La maggior parte di questi resta fuori dai festival che contano. Ma solo alcuni usano in modo furbo i media, o si lasciano usare, per attirare un’attenzione (quale che sia) sul proprio lavoro.
Solo qualche settimana fa, in Gran Consiglio è stato votato il credito al Festival per i prossimi cinque anni: 14 milioni. Non pochi, proprio perché si tratta di un Festival internazionale che ambisce all’eccellenza, non di una rassegna di paese. Chiedere che il Festival usi bene i soldi dei contribuenti significa esigere che faccia delle scelte, votate prima di tutto alla qualità. Se ci riesce bene, se no lo si critica. Il resto, in particolare prima che inizi, sono chiacchiere più o meno interessate, di certo superficiali.
Il bello del Festival (spesso anche il brutto) è che si tratta di un vero spazio di scoperta, al di fuori dei percorsi abituali delle sale cinematografiche e delle tv, vittime volontarie di una strisciante colonizzazione culturale. Un peccato è quando abdica a questa funzione per un tornaconto mediatico. Ma pretendere di controllarne in qualche modo le scelte sarebbe presuntuoso, oltre che alla lunga penalizzante; anzitutto per il pubblico. Perlomeno per chi ancora crede che un’autentica esperienza culturale, libera, riesca a definire qualcosa di noi stessi, ciò che siamo o forse vorremmo essere.

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