L'analisi

Il Ticino che perde umanità

20 novembre 2014
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Chiamo in causa due personaggi che nell’accezione comune cantonticinese sono definiti ‘intellettuali’: Sandro Bianconi, sociolinguista, recentemente insignito del premio Oertli; Giovanni Orelli, scrittore, di cui è appena uscito un libro di racconti che «hanno il tono evocativo di momenti del passato». Mi interessano questi due ‘intellettuali’ per alcuni passaggi in interviste da loro rilasciate.

Sandro Bianconi: «Il Ticino in cui mi riconosco sta scomparendo. Era un Ticino dignitoso, consapevole dei propri limiti, ma anche delle necessità dei contatti con Italia e Svizzera, un Ticino solidale e aperto… Al suo posto c’è un Ticino incolto, opportunista e volgare, in cui tutto deve essere ‘mega’, mega-cementificazione del territorio, mega-centri commerciali, mega-eventi di massa… In questo Ticino assurdo mi sento straniero».

Giovanni Orelli: «… non ho perso quella chiarezza primigenia che è propria degli uomini che vivono in armonia con la terra… la mia anima di contadino è sempre in primo piano, limpida variazione, ma anche conferma di una millenaria condizione umana… Abito in città da molti anni, ma Lugano mi piace poco… le mie riserve nei confronti della vita a Lugano sono parecchie... Lugano, in modo un po’ ridicolo, è detta l’Atene della Svizzera italiana, ma di Atene c’è molto poco».

Ne esce un Ticino stravolto, in netta perdita in dignità, umanità, chiarezza primigenia, solidarietà. Anzi, per molti aspetti, che non vanno presi come nostalgici, ma come parte del suo ‘essere’ (della sua personalità, si potrebbe dire), un Ticino ormai in via di estinzione. È apocalisse (che significa comunque rivelazione)? È realtà documentabile. Basterebbe solo pensare all’accresciuta sensibilità nei confronti del problema più visibile e opprimente, l’efferato consumo di territorio, quasi che il territorio fosse estensibile. A fronte di questa lamentazione ormai non più profetica dei due intellettuali sta però un Ticino che, nonostante le sue crisi, è prorompente economicamente, aggiunge quasi un miliardo di franchi di prodotto interno lordo (o di maggior ricchezza prodotta) in un quinquennio, 600 milioni il reddito primario delle economie domestiche, mezzo miliardo delle società finanziarie e non finanziarie, che riesce a ‘cementificare’ in un decennio, tutto compreso, al ritmo di 2,8 miliardi all’anno tenendo in piedi la principale industria del cantone, che in un decennio arricchisce pure il suo parco autoveicoli alla media di oltre 4’000 vetture all’anno, che con l’Italia nonostante i frontalieri combina ogni genere d’affari, molti dei quali danno lavoro a studi legali e fiduciari luganesi e anche alla Procura pubblica.

A questo punto la conclusione può essere solo una. Ed è marxiana: è il tipo di economia imperante fondata sulla redditività immediata e sull’espansione ad ogni costo (a cui, intrappolati, non si intende rinunciare, se non costretti da una crisi senza ritorno) che genera il tipo di situazione o di ‘cultura’ che non fa più amare il Ticino. Che non è il Ticino di una volta. E neppure quello degli ‘intellettuali’. È il Ticino che perde umanità, colmando appunto il vuoto con l’opportunismo, l’affarismo, la volgarità sociale e politica.

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