L'analisi

Il passo falso della dama di latta

10 giugno 2017
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Aspirava a diventare la nuova dama di ferro, ma lo specchio del voto le ha rimandato l’immagine di una signora di latta. Theresa May è uscita drammaticamente ridimensionata dalle elezioni che lei stessa aveva voluto anticipare per dotarsi (immaginava) di una maggioranza parlamentare tale da affrontare con agio il negoziato sull’uscita dall’Unione europea. L’ambizione, anche in questo caso, è stata una cattiva consigliera e comunque superiore alle capacità di leadership della capofila Tory. Ma non si tratta solo della sua sorte, e, tutto sommato, non solo della singolarità del caso britannico.

Quanto a questo – cominciamo da qui – si può osservare che il rigurgito nazionalista della Brexit e le illusorie promesse di ritrovata sovranità hanno surrogato solo in parte e per un breve lasso di tempo il disorientamento e il senso di abbandono dei ceti più penalizzati dalle politiche neoliberiste (chiamate, con una menzogna, globalizzazione). Il programma economico e sociale di May le confermava, di fatto, e ciò le ha probabilmente alienato i consensi di quella parte di elettorato che pure la sosteneva nella sua campagna d’Europa e nell’ideologica avversione all’immigrazione. Specularmente Jeremy Corbyn, designato becchino del Labour, ha resuscitato un partito che Tony Blair e Gordon Brown avevano condotto sul ciglio della fossa. Accusato da buona parte della stampa, non solo britannica, di populismo rosso, Corbyn ha piuttosto avuto la capacità di riportare il tema dell’equità sociale al centro del discorso. Facendo quanto è lecito attendersi da un politico di sinistra, ha recuperato in maniera spettacolare il voto altrimenti destinato ad alimentare i multiformi velleitarismi antisistema.

In tutto ciò, una parte determinante (di cui si è pur giovato Corbyn) l’ha avuta una tendenza comune a quasi tutti i Paesi d’Europa: il rigetto del discorso delle élite, che in caso di elezioni si traduce in voti negati ai governi in carica. Solo i più solidi non soccombono, ma a costo di perdite importanti e senza che ciò mascheri la crescita delle forze antagoniste. Come hanno confermato, salvaguardando le rispettive peculiarità, anche le ultime elezioni in Austria, Olanda, Francia. Ovvero parti importanti di quell’Europa che non può considerare distanti o estranee le dinamiche britanniche. Non solo, si è detto, perché riproducono situazioni che essa stessa sperimenta, ma perché il loro esito più vistoso – l’indebolimento di Theresa May – condizionerà il corso del negoziato sulla separazione, in una forma che adesso non è ancora possibile prevedere.

L’illusione di potersi imporre su Londra giovandosi della debolezza del suo governo rischia di rivelarsi fuorviante e avere vita breve. Un esecutivo fragile e una non irrealistica eventualità di un nuovo voto in tempi stretti non favorirebbero in alcun modo il negoziato, se non altro per la volatilità dell’interlocutore. Paradossalmente, se Theresa May ha in qualche modo avuto ciò che si meritava, e qualche argomento l’avrà pur perso, all’Europa potrebbe toccare di sopportarne la malasorte.

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