Commento

Il lavoro e il valore

5 gennaio 2016
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Quando tutti festeggiano e folleggiano in consumi, capita di imbattersi in realtà opposte. Non quella della povertà, quella del lavoro. Il lavoro degli infermieri negli ospedali, dei soccorritori delle ambulanze, di chi assiste le persone anziane rimaste sole, di chi ci libera dalla sovrabbondanza di rifiuti, di chi veglia alla sicurezza come i poliziotti o le guardie di confine. In queste circostanze non può non insinuarsi una domanda: è giusto che questi ‘lavori’ che appaiono di grande utilità collettiva siano remunerati in misura dieci, cento volte inferiore a quelli di chi (e l’elenco è superfluo) non ne ha invece che una parte minima (o persino dannosa)? Non è la tentazione di mercificare tutto. Anche se un giorno, non molto lontano, si porrà il problema di domanda ed offerta, essendo pochi coloro che scelgono professioni di quel tipo di fronte alle esigenze sempre più crescenti. E forse si dovrà pagare un netturbino come un banchiere. No, è l’eterna questione del giusto salario che si ripropone in queste circostanze in misura più viva.
Si può osare allora un accostamento tra un pensiero medievale (cristiano) e una verifica recente (finanziaria). Con un significato profondo e dimostrativo. Il pensiero medievale è di Tomaso d’Aquino, che ha fatto da faro alla nozione di lavoro, giusto salario, giustizia sociale.
La retribuzione di un lavoro non è il semplice risultato di una negoziazione tra imprenditore e lavoratore; essa va anche vista come una questione di utilità pubblica. Ci dev’essere, insomma, una integrazione del quanto bene comune o utilità pubblica in ogni valutazione di un prezzo e di una remunerazione. Nozione fondamentale smarrita. E pensare quanto sarebbe opportuna anche nell’analisi della spesa pubblica. Non ci si chiede mai: quanto “bene comune” da salvaguardare c’è in quella spesa?
La verifica moderna, finanziaria, ce la fornisce invece un celebre istituto inglese di ricerca, la “New economics foundation” (Nef) che scava nella realtà economica facendo pensare e anche scatenare reazioni nel maggior centro mondiale della finanza, la City di Londra. “A Bit Rich” si intitola lo studio della Nef. Ed è un calcolo puntiglioso del valore reale che le varie professioni portano alla società (il sottotitolo è infatti: “Calculating the reale value to society of differents professions). In parole povere: se combini i benefici o i danni collaterali per la società dovuti alla produzione e al consumo, quale maggior valore aggiungi non tanto all’economia ma a tutta la società? Così si dimostra che un intermediario finanziario della City sull’arco di vent’anni ha creato più danni che utili alla società (il rapporto è di 7 a 1). Risultato che ha scatenato malumori. Ma non è ciò che conta.
Contano due altri effetti. Il primo: si demolisce l’illusione tipica dell’economicismo, che traduce tutto solo in soldoni e valore aggiunto monetario e dimentica il “plus” di natura collettiva e non monetaria che una professione produce (infermiere), rendendo nel contempo alcune remunerazioni ritenute ‘di mercato’ indecenti e ingiustificate. Il secondo: gli indicatori economici dominanti (Pil, crescita) sono cattive bussole di progresso economico e sociale perché non tengono conto dei valori aggiunti di bene comune non monetizzati o dei danni sociali e ambientali generati.

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