Inchieste

Il giudice Ermani: ‘Subire un arresto è andare contro un muro’

(©Ti-Press / Gabriele Putzu)
12 maggio 2015
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Reato, pena, detenzione. Il ruolo del giudice appare centrale, nel processo di privazione della libertà. “laRegione” ne ha parlato con Mauro Ermani, presidente del Tribunale penale cantonale (Tpc). Un lungo colloquio che inizia con una precisazione: «Noi interveniamo al momento in cui viene inflitta la sanzione, e di regola inizia l’espiazione della pena. A volte chi compare in aula, al cospetto del giudice e se del caso di una giuria popolare, è già stato per un po’ in prigione, affrontando il più probante dei regimi di detenzione. Da quel momento, quindi, la sua situazione può solo migliorare».

La Farera, un carcere giudiziario che per sua stessa connaturazione lascia il segno.

Subire un arresto equivale ad andare contro un muro. Lì inizia una fase molto dura: si passa da persona libera a persona detenuta nel verso senso della parola. Sulle 24 ore di una giornata, 23 vengono trascorse in cella, da soli con se stessi, con in pratica l’unico “diversivo” costituito dagli interrogatori degli inquirenti. È normale che, al di là del reato che è stato commesso, le situazioni più a rischio si conclamino in questa prima fase. La stessa edilizia carceraria ne tiene conto con determinati accorgimenti. Per chi deve affrontarla all’improvviso, la detenzione è come una montagna molto alta da scalare. Ma quando la cima è raggiunta – non parlo della fine della pena, ma del passaggio da un regime all’altro – il cammino è meno duro: c’è il trasferimento alla Stampa, si apre la possibilità di avere normali relazioni con gli altri detenuti, poi a un terzo della pena è possibile chiedere i primi congedi eccetera.

Fino a che punto la componente umana può incidere sul lavoro del giudice?

La pena va inflitta in base alla colpa, quindi uno paga per quello che ha fatto. Nella determinazione della pena dobbiamo tener conto del fattore inerente alla durezza della pena. Parlo del caso in cui uno viene condannato in Svizzera e ha il parente più vicino a 1’000 chilometri di distanza e di conseguenza avrà poche visite o nessuna; e in più, non avendo nessun radicamento nel territorio, a causa del pericolo di fuga non potrà beneficiare neppure del regime alleggerito o dei congedi... Allora l’esperienza detentiva si prefigura decisamente più dura.

Quindi?

Quindi un certo fattore “regolatore” o di “correzione” sulla commisurazione della pena, come indica la giurisprudenza, può entrare in linea di conto. Non in maniera decisiva, ma è un aspetto che va considerato.

Una sorta di “variabile umana”.

È quella che tecnicamente viene definita “la sensibilità alla pena”, ovvero gli effetti che la pena ha sul condannato non solo in proiezione futura, ma anche in relazione a come viene vissuta quotidianamente, “sulla pelle”, durante l’espiazione. Fatti questi distinguo ed erogata la pena, per il giudice il compito si esaurisce. Prima, come ho detto – pur all’interno dei paletti che la giurisprudenza ha fissato a garanzia della parità di trattamento – rimane in effetti uno “spazio” per il libero apprezzamento del giudice. Ma ripeto: il concetto principale rimane quello della colpa oggettiva e soggettiva del condannato, e si parte quindi dalla pena maturata sulla base di ciò che è stato fatto e dell’entità della violazione del bene protetto.

Sempre dal profilo delle implicazioni emotive, come si posizionano le giurie popolari, di regola composte da persone prive di esperienza nel penale e quindi catapultate in situazioni non propriamente facili da valutare?

Bisogna sempre distinguere l’aspetto prettamente umano da quello giuridico. Il primo è determinato dalla sensibilità individuale dei singoli giurati, ma anche dal modo in cui l’imputato si pone nei confronti della giuria. In certi casi è naturale arrivare a pensare che in un unico secondo particolarmente mal gestito l’accusato è riuscito a rovinarsi una vita altrimenti irreprensibile. Mentre in altri la riflessione può essere determinata da un atteggiamento spavaldo di chi in aula nega l’evidenza, getta fango sulla vittima (magari addirittura vittima di reati sessuali) e si comporta come peggio non potrebbe. Sono tutte situazioni che possono oggettivamente urtare le sensibilità e dare campo al fattore umano. Ma alla base, e in primis, vi è l’obbligo di attenersi all’impegno, firmato, di fedeltà alle leggi e alla Costituzione. Il che significa che da una pena minima edittale, così come da una pena massima, non si può in nessun caso derogare. È quello che il giudice spiega ai giurati, offrendo di solito una forchetta all’interno della quale poi ci si muove a seconda delle diverse sensibilità, discutendo e mediando in base al concetto del libero apprezzamento. È anche interessante osservare le differenze da Cantone a Cantone rispetto ai reati perseguiti. Non esiste, in Svizzera, il concetto di “pena da tariffario”. La sanzione è infatti sempre individualizzata e deve tenere conto di tutti i fattori determinanti, dalle possibili aggravanti alle attenuanti. Ciò, a differenza ad esempio di quanto avviene negli Stati Uniti, dove non esistono le circostanze attenuanti e la pena è la semplice conseguenza del reato commesso.

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