Commento

Il bisogno e l’utopia

11 novembre 2017
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Non erano quelli il luogo, né il tempo; e poteva andare a finire in tutt’altra maniera. Tante cose si possono dire della Rivoluzione russa, a cento anni dal suo prodursi e molti meno dal suo esito sconsolato. Ma nessuna riscrittura storica, nessun antagonismo ideologico può negare che si è trattato di uno dei pochissimi eventi, se non del solo in cui la Storia è stata “piegata”, plasmata su un utopico progetto di liberazione.

Venuto da lontanissimo (le rivolte degli schiavi, ma anche il “nessun ricco entrerà nel regno dei cieli”), figlio dell’Ottocento, si potrebbe anche dire che quel seme cadde su un terreno non preparato a riceverlo (uno sterminato Paese contadino), ma incredibilmente vi mise radici, e una volta cresciuta, la sua pianta diffuse altri semi ovunque. Se il cristianesimo andò per il mondo promettendo un riscatto ultraterreno, e il capitalismo sulle navi mercantili e le baionette (con missionari al seguito), il comunismo, a partire da quel 1917, si diffuse ribaltando un ordine temporale: gli ultimi sarebbero stati i primi. Ma non in paradiso, qui sulla terra. Uno straordinario messaggio salvifico, una trappola mortale.

Perché non si può parlare della rivoluzione tacendo i suoi morti. Non solo quelli dei giorni della furia e del fuoco, ma quelli del suo costituirsi in sistema sanguinario e paranoico; prima accecato dalle sue stesse mani armate di ideologia, e infine corrotto dalla consuetudine del potere. Milioni di morti, fatti fuori “nel loro stesso nome”, con un colpo alla nuca o scavando canali in Siberia.

L’unicità, la grandezza tragica della vicenda comunista fu infatti quella di essere al tempo stesso spietato meccanismo di annichilimento delle persone, ma anche ispirazione, arma ideale di chi nel mondo si batteva per liberarsi dallo sfruttamento, dall’oppressione, dalla colonizzazione. Mentre a Mosca le statistiche di produttività comprendevano il numero di “nemici del popolo” consegnati al carnefice, altrove e in altri tempi i comunisti (che guardavano a quella stessa Unione Sovietica per vedere confermato il proprio progetto) innervavano le resistenze ai fascismi europei. E non mancarono quelli che “videro” e un po’ morirono nell’anima (da Victor Serge, a Koestler, a Gide) e scelsero il silenzio o furono emarginati. Sulla loro prevalse la voce dei Sartre, secondo i quali bisognava tacere, per non disperare la classe operaia.

Ottant’anni scarsi – tanto durò l’esperimento avviato da Lenin – sono un soffio nella storia del mondo, e ancora meno può valere il giudizio che ne possiamo dare da una colonna di giornale. Ma c’è stato chi ne ha scritto meglio: “In un mondo di spaventose ingiustizie, com’è ancora quello in cui sono condannati a vivere i poveri, i derelitti, gli schiacciati da irraggiungibili e apparentemente immodificabili grandi potentati economici, da cui dipendono quasi sempre i poteri politici, anche quelli formalmente democratici, il pensare che la speranza della rivoluzione sia spenta, e sia finita solo perché è fallita, significa chiudersi gli occhi per non vedere”. Norberto Bobbio, “L’utopia capovolta”. Era il 9 giugno 1989, e sembra oggi.

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