Commento

Il bene comune

22 agosto 2015
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Chi scende a Lugano da sotto la stazione ferroviaria o dalla cattedrale in città o chi esce dall’autostrada a nord, è schiaffeggiato da sequenze di graffiti (imbrattamenti) indecenti. Più che il turista, al quale corre sempre il primo pensiero, dovrebbero offendere il cittadino. Corre allora il pensiero alla ripulitura a furore di popolo, con il concorso di centinaia di cittadini volontari di ogni età, alla ripulitura dei muri di Milano dopo il passaggio ‘graffitario’ degli energumeni asociali detti black bloc. Se ne potrebbe trarre una lezione. Per almeno due motivi: perché richiama un’estensione della nozione di proprietà; perché emerge una considerazione particolare sul bene comune.
L’imbrattatura esibizionista avviene su immobili perlopiù privati o su manufatti pubblici, scuole, viadotti. Il danno per i privati, che pongono qualche rimedio una volta o due e poi desistono, è enorme. Se un cittadino comune, non proprietario, si rende conto dello sconcio e vorrebbe evitarlo o porvi rimedio oppure se un gruppo di volontari prende l’iniziativa di ripulire, è perché si attribuisce all’immobile e alla proprietà privata una funzione più estensiva, sociale. Che è poi la funzione non prioritariamente turistica, come spesso si tende a rilevare, ma civile, etica, estetica. L’imbrattatura non è solo un fatto o un costo di privati. È un ‘costo’ pubblico in quanto distrugge il senso civile ed etico di una comunità, annienta la bellezza. Ci si potrebbe chiedere se le armi di distruzione di questi valori (le bombolette spray) non dovrebbero essere sottoposte, al momento della vendita, a una richiesta identitaria, per avere almeno un riscontro sui potenziali utilizzatori. Sorgono subito le scontate obiezioni: la libertà di commercio, la burocrazia, la presunzione di innocenza. È la classica dimostrazione che spesso, pure nelle cose minime, mercato, etica ed estetica e persino economia (turismo) non vanno d’accordo e forse bisognerebbe tentare seriamente di ristabilire una gerarchia di valori. Gli ultimi decenni sono stati vissuti all’insegna della privatizzazione di tutto (persino dell’aria, con le quote di emissione) e l’impoverimento sistematico di quanto è comune o condiviso. L’accanimento contro ciò che è (o era) statale e pubblico, spesso in nome dell’efficacia o della redditività economica, ha contribuito a disprezzare il ‘comune’. Oggi, proprio a causa di alcune depravazioni o devastazioni (e i graffiti ne sono un esempio) ci si accorge che ‘comune’ non è la stessa cosa di ‘pubblico’, soprattutto se per pubblico si intende ‘statuale’. Anche perché, come si è rilevato, il rapporto dei cittadini con un bene (l’immobile, ad esempio) può anche assumere un’altra forma di quella del ristretto diritto di proprietà. Propriamente parlando il bene comune è una risorsa dalla cui fruizione non può essere escluso nessuno, pena la privazione, per la persona esclusa, di componenti essenziali dei suoi diritti. Se mi si sottrae la bellezza o l’armonia (e, ovviamente, ciò non avviene solo con il graffitismo barbaro ma anche, ad esempio, con la sopraffazione del territorio e del paesaggio o con l’architettura sconcia), mi si sottrae un bene comune e ho il diritto non solo di protestare ma anche il dovere di intervenire, rimediare, ripristinare, come cittadino, come comunità.

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