L'analisi

G Venti meno uno

(Matthias Schrader)
7 luglio 2017
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Non soltanto per insofferenza nei confronti della ritualità degli incontri internazionali Donald Trump affronterà con qualche aggressivo imbarazzo il G20 che si apre oggi ad Amburgo. Il presidente statunitense vi giunge più debole di quanto voglia dare a vedere, accolto da un contesto in cui sospetto e disistima nei suoi confronti non vengono più mascherati. In questo senso, un’ennesima e pur stucchevole kermesse di “grandi” (seppure questa ben più rappresentativa dello stato del mondo, dell’inutile e sorpassato G7) potrebbe favorire sviluppi politicamente più che interessanti.

A partire, va da sé, dall’incontro fra Trump e Putin, che cade – per ammissione reciproca – nel momento in cui le relazioni tra Usa e Russia hanno toccato il livello più critico da anni. I sei mesi di presidenza Trump non solo non hanno allentato le tensioni dell’epoca Obama, ma – rivelando l’infondatezza della professata vicendevole ammirazione tra Putin e Trump – hanno contribuito ad approfondire il sospetto reciproco e ad aggravare il contrasto strategico tra le due potenze. Con sulle spalle il macigno del Russiagate, per Trump non sarà facile vantare di avere trovato con l’omologo russo “una chimica straordinaria” (formula che ha particolarmente cara, già spesa, e si vede con quale esito, con Xi Jinping). Né potrà permettersi atteggiamenti da bullo con il judoka del Cremlino, in difficoltà non minori quanto alla politica interna, ma ben più attrezzato nell’esercizio del dominio.

Quel Putin che arriva ad Amburgo, reduce da un incontro con il presidente cinese, servito a concordare un più stretto coordinamento delle reciproche politiche estere: non ancora la formalizzazione di un asse Russia-Cina, ma l’indicazione precisa di un orientamento strategico nel quale Washington non trova posto se non come competitor (non ancora nemico ma quasi). Se infatti il fronte delle guerre per procura, o “a bassa intensità” tra Mosca e Washington va dal Mar Baltico alla sterminata trincea siro-irachena, il confronto con Pechino ha per teatro mezzo mondo: dal controllo delle rotte del Pacifico occidentale allo sfruttamento delle risorse di Sudamerica e Africa, dove la Cina è penetrata come un coltello nel burro. Conquistando la deferenza dei governi (anche i più impresentabili) allettati da una quantità di soldi mai vista, e lasciando a Washington il controllo di basi militari che non servono ad altro che ad attrarre risentimenti locali e odio ideologico.
Infine, seppure costretti nel ruolo di pesci piccoli, Trump incontrerà ad Amburgo la diffidenza degli europei, quegli interlocutori di cui più volentieri si è fatto alternativamente beffe o ha blandito con suprema ipocrisia. A partire da Angela Merkel, padrona di casa, alla quale lo oppongono stile, progetti e caratura politica. La cancelliera e i suoi pari europei (l’interessata, calorosa accoglienza a Varsavia non fa testo) non tollerano la disinvoltura di un presidente che denuncia con un’alzata di spalle gli accordi sottoscritti dal proprio Paese, e diffidano di un uomo le cui pulsioni – per limitarci a quelle comunicative – non rispettano gli standard, anche di decoro, della presidenza Usa come hanno constatato molti imbarazzati senatori del suo stesso partito.

L’idea di vedere contraffatti via twitter i contenuti di colloqui “riservati”, e sbertucciati gli interlocutori di turno, non fa che alimentare la diffidenza e la sfiducia degli europei nei confronti di Trump. Il quale non ha forse ancora capito che un presidente temuto può forse vantare una certa forza; mentre uno disprezzato deve semmai temere la forza altrui.

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