Commento

Fuori dal nucleare, con tante domande

22 maggio 2017
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Sei mesi fa una maggioranza (54,2%) di votanti si era pronunciata contro un’uscita dal nucleare a marce forzate, dettata dalla politica sulla base di un calendario prestabilito. A parte gli irriducibili fan dell’energia atomica (Christian Wasserfallen, consigliere nazionale Plr: «La gente non ne vuole sapere di un’uscita dal nucleare»), tutti avevano letto quel modesto ‘no’ – o quel 45,8% di ‘sì’ – all’iniziativa dei Verdi in questo modo: il popolo svizzero non vuole abbandonare il nucleare in modo precipitoso; è però disposto – nei tempi necessari per reimpostare l’approvvigionamento energetico – a voltare pagina.

Quella lettura si è rivelata corretta. Ieri la prima tappa della Strategia energetica 2050 (Se 2050), messa in cantiere dal Consiglio federale nelle settimane seguenti la catastrofe di Fukushima (marzo 2011), è stata approvata in modo chiaro con il 58,2% di ‘sì’. Il popolo svizzero (o meglio: i quattro aventi diritto su dieci che hanno votato) ha così stabilito che non devono più essere concesse autorizzazioni per costruire nuove centrali nucleari. La ricerca potrà continuare. E i nostri cinque, vetusti impianti resteranno in funzione finché saranno giudicati sicuri, oppure finché i gestori li riterranno redditizi. Ma poi basta.
Il popolo svizzero ieri ha anche indicato su quali binari va incanalata la politica energetica: in altre parole, dove bisognerà andare a prendere quel 40% di elettricità attualmente prodotto nel Paese a partire dall’energia atomica e che verrà gradualmente a mancare nei prossimi 20-30 anni, quando le centrali giungeranno l’una dopo l’altra (per prima Mühleberg, che verrà chiusa nel 2019 per decisione del gestore) al termine del loro ciclo di vita. Si tratterà di ridurre i consumi di energia ed elettricità, di incrementare l’efficienza energetica (favorendo i risanamenti degli edifici e inasprendo le prescrizioni sulle emissioni dei veicoli, tra l’altro), di dare una spinta – con sovvenzioni limitate nel tempo – alle nuove (sole, vento, geotermia, biomassa) e vecchie (acqua) fonti rinnovabili.
La decisione è saggia. Perché assicura solide e ragionevoli condizioni quadro in una delicata fase di passaggio (uscita dal nucleare, relativizzazione delle fonti fossili, impegni internazionali in materia di protezione del clima, prezzi dell’elettricità in caduta libera ecc.) nella storia dell’approvvigionamento energetico in Svizzera e nel mondo. I ‘Neinsager’ nelle ultime settimane le hanno sparate grosse – a suon di inserzioni costate milioni di franchi – per demolire il primo pacchetto di misure della Se 2050: non hanno saputo presentare alternative credibili; solo slogan e cifre maneggiate con spregiudicatezza, o poco più.

Principale vincitrice della votazione di ieri, Doris Leuthard – o chi presto o tardi (già nel 2018?) la sostituirà alla testa del Dipartimento federale dell’ambiente (Datec) – non potrà comunque starsene con le mani in mano. La prima, ambiziosa tappa della Se 2050 non fa che gettare le basi di una svolta energetica che resta tutta da costruire. Le questioni aperte, infatti, sono molte.

Alcune di queste (come il futuro dell’idroelettrico o la trasformazione e l’ampliamento delle reti elettriche, necessari per adeguarsi a un approvvigionamento che sarà sempre più decentralizzato) saranno sul tavolo del Parlamento già a fine mese. Altre, non meno cruciali, dovranno essere affrontate negli anni a venire. Come rafforzare le prescrizioni di sicurezza nella fase di fine vita delle centrali nucleari, ed evitare che la loro disattivazione e lo smaltimento delle scorie si traducano in un salasso per i contribuenti? Come raggiungere gli ‘obiettivi’ di riduzione dei consumi e di produzione indigena da fonti rinnovabili indicati in questa prima tappa della Se 2050 senza passare da tasse su combustibili e carburanti e sull’elettricità, tasse delle quali il Parlamento non vuole sentir parlare? Come riuscire a imprimere finalmente una svolta al lento sviluppo del solare e dell’eolico (nella geotermia pochi ripongono speranze), superando le resistenze delle popolazioni locali, senza pregiudicare con maxi-impianti i paesaggi protetti e oltre il previsto tramonto delle sovvenzioni (2023; 2030 per i contributi di investimento)? Come mantenere a galla il settore idroelettrico, ridisegnando il mercato interno dell’elettricità senza incidere pesantemente sul portafoglio di famiglie e piccole e medie imprese, né penalizzare in modo eccessivo i Cantoni alpini (canoni d’acqua)? E ancora: come concretizzare la promessa di ridurre la dipendenza della Svizzera dalle importazioni di corrente ‘sporca’, garantendo – anche in inverno, quando da un lato la produzione idroelettrica è al minimo e il sole scarseggia, dall’altro i consumi fanno segnare un picco – un approvvigionamento ‘sicuro, pulito e indigeno’ mentre facciamo a meno del nucleare, che sarà anche il babau ma è pur sempre ‘CO2 free’?
A queste e ad altre domande, chi oggi ha sostenuto la Strategia sarà chiamato a fornire risposte più convincenti di quelle sentite sin qui.

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