L'analisi

Frattura sociale e nazionalismo

13 marzo 2017
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‘Guasto è il mondo’ è il titolo che il grande storico Tony Judt aveva dato alcuni anni fa a una serie di articoli redatti per una rivista americana. Il testo costituiva una disamina impietosa della crescente frattura sociale creata dal disordine economico mondiale: emarginazione, disoccupazione, violenza, terrorismo, flussi migratori.
Alla vigilia di una serie di appuntamenti elettorali decisivi per il futuro continentale, lo spettro che si aggira per l’Europa non è certamente quello profetizzato nel ‘Manifesto del Partito Comunista’ di Marx ed Engels. Al contrario. I nomi della francese Marine Le Pen, dell’olandese Geert Wilders o dell’anti Merkel, la tedesca Frauke Petry, incarnano, seppur con tutti i distinguo e le differenze, quell’offensiva nazionalistica che ha sostituito gli ideali politici, già attecchita negli Stati Uniti con l’elezione di Donald Trump.
Nell’interregno tra un capitalismo che fino agli anni 70 del secolo scorso aveva attenuato le differenze di classe garantendo prosperità, e un futuro segnato da una ‘turbo finanziarizzazione’ all’insegna delle crescenti disuguaglianze, oltre che alla probabile scomparsa di una buona fetta di posti di lavoro, l’incertezza e la mancanza di prospettive spingono una parte dei cittadini, in generale le fasce medio-basse, ad abbracciare un’ideologia basata sull’appartenenza identitaria. Non è un caso che in Francia il Front National sbanchi nelle ex roccaforti operaie del Partito comunista. E che, stando ai sondaggi, la metà dell’elettorato di Jean-Luc Mélenchon (il candidato all’Eliseo della sinistra radicale) voterà al secondo turno per la candidata dell’estrema destra Marine Le Pen.
Certo, la globalizzazione ha mediamente portato maggiore ricchezza nel mondo. La questione tuttavia è quella della voragine apertasi, dalla rivoluzione reaganiana degli anni 80, nella distribuzione della ricchezza. Gli ultimi dati della Federal Reserve americana indicano che mai gli americani sono stati tanto ricchi ma neanche tanto diseguali, perché la crescita è attribuibile ai redditi del capitale finanziario e immobiliare. Tra i convitati al banchetto manca dunque una buona parte dei cittadini.
La tendenza è globale (sul fronte delle disuguaglianze la Cina ha ormai superato gli Stati Uniti) e spiega anche, come ha illustrato in una conferenza all’Usi l’islamologo Gilles Kepel, i processi di radicalizzazione religiosa nelle banlieue, humus del terrorismo islamista. Le vite di scarto, 40% di disoccupati tra i giovani delle periferie con prospettive scarse o nulle di entrare nel mondo del lavoro, abbracciano così quanto offre loro l’ideologia sostitutiva religiosa. L’islamismo delle terze generazioni risponde a una logica identitaria, con tutte le derive violente di questi ultimi anni.
In mezzo a queste due identità speculari oggi sul proscenio (l’estrema destra da una parte, il comunitarismo dall’altra), un mondo politico fragilizzato e disorientato, convinto che le ricette patriottico-protezionistiche siano uno specchietto per allodole. Ma non così coraggioso da rimettere in discussione i mali della nostra epoca, finanziarizzazione e disuguaglianze, e approntare una robusta ridistribuzione della ricchezza (ad esempio tramite lo strumento fiscale coordinato su scala sovranazionale, e una politica di investimenti pubblici). La malattia diagnosticata da Tony Judt è così destinata a perdurare, con all’orizzonte lo spettro di un’accentuazione delle derive sociali e politiche.

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