L'analisi

Due nemici per alleati

30 novembre 2015
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Dobbiamo dunque affidarci a “quei due”, per vincere il terrorismo e per prosciugare il flusso di migranti verso l’Europa. Affidarci cioè allo zar Vladimir Putin e al sultano Recep Tayyip Erdogan, che si prendono a schiaffi per l’abbattimento del caccia russo, non si sa bene se sui cieli siriani o turchi. E in questa lite fra due temperamenti troppo uguali per entrare in sintonia (la fierezza, l’arroganza, l’istinto illiberale, l’eliminazione dei contestatori più decisi, il bavaglio alla stampa, la passione per il potere personale) si riflettono anche le incongruenze e le contraddizioni di quella larga alleanza che si propone di dissolvere lo Stato Islamico. Tutt’altro che un obiettivo impossibile, ma dai tempi impronosticabili, e che soprattutto lascia aperti innumerevoli interrogativi su quello che potrebbe essere il futuro della regione una volta estirpato ciò che lo stesso leader del Cremlino ha definito “il nuovo nazismo”. Perché, al di là dei proclamati principi sull’annientamento del Califfato, in definitiva ognuno continua a giocare la sua partita. Mosca e Ankara rappresentano bene i rispettivi e contrastanti interessi. Putin deve innanzitutto salvare l’alleato Assad (o il suo regime) per mantenere l’unica presenza militare russa nel Mediterraneo, e per contrastare eventuali progetti di influenza occidentali. Erdogan punta invece proprio alla caduta del dittatore siriano per contrastare la potenziale crescita dell’Iran, per favorire la nascita di un’ampia area a dominazione sunnita che corrisponde meglio ai suoi progetti di “espansione neo-ottomana” (politica, ma soprattutto economica), e per avere mano libera nell’impedire la nascita di un’entità statale dei curdi (che è la sua autentica ossessione, nonché la sua appuntita arma di propaganda interna). Non a caso, dopo essere entrati formalmente in guerra, entrambi si sono concentrati su target che indicano chiaramente il loro obiettivo immediato. Il leader russo ha colpito più i ribelli anti-Assad – che cominciavano a ottenere qualche successo militare tra le macerie della Siria – mettendo in salvo il clan degli Assad e gli eventuali suoi successori di religione alauita. Quello turco ha concentrato i suoi attacchi non tanto sulle “milizie nere” di Al Baghdadi, ma piuttosto contro il Pkk, la guerriglia curda che da tempo ha capito l’impossibilità di una secessione dell’Anatolia orientale dalla Turchia, ma che può contribuire alla nascita della nazione curda in un territorio fra Iraq e Siria. Certo, è possibile che ad un certo punto Russia e Turchia si concentrino sullo stesso bersaglio rappresentato dall’Isis. Gli interscambi commerciali fra i due Paesi sono importanti, le due nazioni hanno vistosi problemi economici, e le sanzioni imposte da Putin al “nemico” di Ankara potrebbero essere o di breve durata o facilmente aggirabili. Ma in queste condizioni, se sussistessero cioè i contrastanti disegni strategici dei due Paesi ritenuti indispensabili per vincere la guerra all’Isis, e se li sommiamo a quelli di tutti gli altri protagonisti “esterni”, come si configurerebbe l’eventuale dopo-Assad? Probabilmente non ha torto Joschka Fischer, ex ministro degli Esteri tedesco, quando, di fronte alla prospettiva di associare il dittatore siriano alla coalizione, ammonisce a non commettere gli stessi errori fatti dagli americani in Iraq (l’implosione dello Stato e la furibonda mischia fra comunità rivali), con in più il pericolo di gettare fra le braccia del califfo molti altri sunniti delusi, preoccupati o semplicemente frustrati. Insomma, attenti a quei due. E non solo a loro.

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