Commento

Dalla redazione alla Procura

10 gennaio 2017
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La Procura pubblica desidera portare in aula direttore, vice e due colleghi giornalisti del ‘Caffé’, per presunti reati (diffamazione e concorrenza sleale) da loro commessi pubblicando articoli sulla vicenda dell’errata amputazione dei seni alla clinica Sant’Anna. Che dire? Di grande peso sono di certo i principi e i valori in gioco, legati al lavoro dei media e al loro ruolo di cane da guardia della democrazia. Capiamo l’indignazione dei colleghi denunciati da chi è stato colto in fallo. La cristalleria dell’informazione è di quelle preziose e delicate. Qui ci marciano gli elefanti. A scanso di equivoci, ci preme comunque ribadire un punto fermo: tutti siamo sottoposti alla legge. Lo è il medico per l’errore professionale commesso; lo sono gli amministratori della clinica, tenuti a date condizioni a informare la Procura e l’autorità sanitaria di vigilanza non appena vengono riscontrate irregolarità; e lo sono i giornalisti nel riportare i fatti e nel lavorare all’inchiesta. Nessuno è al di sopra. Pertanto, se una parte si è sentita lesa (il medico e/o la clinica) può legittimamente chiedere alla Procura di esaminare se una testata abbia agito nel rispetto della legge. È questa la casella che scotta sulla quale ci troviamo. D’altra parte, non vi è chi non veda – pure noi lo abbiamo a più riprese vissuto sulla nostra pelle – che troppo spesso chi non ha interesse a che vengano pubblicate determinate notizie, ritenute dai giornalisti di interesse pubblico, denuncia la testata e/o trascina il giornalista dalla redazione in Procura, facendo cadere su di lui il sospetto che quanto scritto sia errato, manifestamente fazioso. In taluni casi è persino stato chiesto il blocco della pubblicazione in Pretura. È pure già capitato che siano partiti precetti esecutivi all’indirizzo di giornalisti e editori vantando crediti a sei zeri. Operazioni intimidatorie queste, che – va detto forte e chiaro – al professionista dell’informazione fanno sorgere mille interrogativi su quanto scritto e ha ancora sulla scrivania, che possono anche indurlo a tirare via le mani dal dossier, perché, se poi va veramente male (il diavolo si nasconde nei particolari), sarà anche chiamato a risarcire i danni. Danni che comincia a sognare di notte immaginandosi il pignoramento del salario e la messa all’asta di qualche bene immobile costato il sudore di una vita. Quello a cui stiamo assistendo è quindi un braccio di ferro fra poteri: da una parte c’è chi, in buona fede e con professionalità (lo speriamo vivamente), crede di aver dato informazioni di interesse pubblico; dall’altro c’è un grosso tornaconto economico della clinica nel salvaguardare la sua immagine con ogni mezzo, anche l’artiglieria pesante. Nel mezzo opera lo Stato: da un lato col Dss, che ha dovuto decidere se revocare e in che misura l’autorizzazione al medico e, dall’altro la magistratura, che dovrà stabilire se e chi ha sbagliato, dal profilo medico e ora anche (se del caso) chi lo ha fatto nella gestione dell’informazione. È pacifico, anzi vitale, che la stampa riferisca di tutto ciò. È innegabile che un Paese senza stampa libera, incapace di portare a galla del marcio dove c’è, incapace anche di accendere i riflettori laddove c’è il pericolo che la polvere venga nascosta sotto il tappeto, è un povero Paese! In questo senso ben venga il lavoro giornalistico che è stato fatto (da loro ma anche da altri, noi compresi svelando proprio questo caso di malasanità). Ben venga il controllo della legalità su più fronti e ben venga, se necessario, la via dei ricorsi anche sino alla massima Corte, ottenendo giustizia ma… fuori dal Ticino. Come è successo quando, per vincere contro un noto politico per reati commessi contro di noi e il nostro operato, siamo dovuti andare al seguito di ottimi avvocati sino al Tribunale federale.

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