Commento

Così forte che lo si dà per scontato

15 luglio 2017
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L’anno scorso per la prima volta aveva fallito l’accesso a una semifinale Slam, obiettivo altrimenti sempre centrato. Di lesa maestà si macchiò quel Milos Raonic, al cospetto del quale il torto è stato riparato mercoledì nei quarti, senza tanti complimenti. Giusto per rimettere il campanile al centro del villaggio del tennis, scosso dall’offesa del canadese.
A proposito di cose da sistemare, ecco l’undicesima finale a Wimbledon della carriera, la possibilità di tornare a trionfare anche nel giardino di casa a cinque anni dall’ultima volta. Un’eternità, in termini sportivi, a maggior ragione per uno abituato a collezionare perle con una certa frequenza.

Correva l’anno 2012, quello dello Slam numero 17, per troppo tempo rimasto l’ultimo. Poi arrivarono gli Australian Open, qualche mese fa, a spezzare l’incantesimo di quel 18esimo titolo “major” talmente inseguito da sembrare irraggiungibile.

Ora la quota da toccare è 19, più su dell’assillo scacciato a Melbourne in gennaio. Dalla testa, più che dal braccio, per quanto meno saldo del solito. Si tende a darla per scontata, tanto è favorito e forte l’unico al mondo che possa permettersi di tornare più forte di prima dopo sei mesi lontano da riflettori e – almeno per un po’ – campi, nell’anno del trentaseiesimo compleanno (classe 1981, giova ricordarlo). Uno sportivo che non ha una spiegazione, se non proprio nella sua unicità, alle prese con una concorrenza che non è alla sua altezza (vale per quasi tutti, e quel “quasi” con maggiore sfacciataggine lo potremmo anche levare), o si è rovinata la salute per stare al passo e insidiarne la supremazia (ogni riferimento a Nadal, Djokovic e Murray è assolutamente non casuale).
Signori, di scontato nello sport d’élite non c’è nulla. La tentazione di farne quasi a priori il Re di Wimbledon (posto che l’incoronazione gli spetta di diritto a prescindere da eventuali futuri successi) è legittima, ma nulla è scontato. Né regalato, tantomeno dovuto. Il successo va guadagnato, anche da parte di chi scatta con un paio di lunghezze di vantaggio, per talento e contenuti tecnici. La chiamammo investitura divina, ci sentiamo di rispolverare il concetto.

I favori del pronostico vanno tutti nella medesima direzione, quella dell’ottava vittoria a Londra di Roger Federer. Nascono da una serie di considerazioni che lasciano poco spazio alle sorprese, è innegabile: ha già vinto sette volte, sono tutti con lui, votati a una causa trasversale che trascende il concetto di tifo; non ha concesso un set in sei partite, Cilic (suo avversario domenica in finale) non è una prima firma; e via di certezze spese per corroborare una tesi che per lo più diventa assioma.

Tant’è, Federer fa rima con vittoria, altrimenti non saremmo tutti lì, in attesa dell’ennesima consacrazione, che si tende a dare per scontata, una questione di tempo. Solo lui, per quello che fa e per come lo fa, alimenta speculazioni del genere, induce a banalizzare un successo in semifinale. Se lo merita, dai. Se lo è guadagnato. Nel suo interesse, e in quello di chi lo venera, fare in modo che si continui a ragionare così.

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