L'analisi

Chi fermerà Marine Le Pen?

7 febbraio 2017
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Il momento non le è mai stato tanto favorevole. Senza sforzo alcuno. Sembra infatti che a Marine Le Pen basti attendere. L’affanno crescente dell’Unione europea, il sovranismo rampante, il conforto della Brexit, “la divine surprise” di Trump alla Casa Bianca. Potrebbe bastare per farne la candidata più votata al primo turno delle presidenziali di aprile. Ma c’è di più: c’è il caos che domina i due campi rivali, quello del post-gollismo che di gollista non ha più nulla, e quello della ex “gauche plurielle” che aveva conquistato l’Eliseo cinque anni fa e che ormai (con un bilancio così avverso) è talmente poco plurale da essersi liquefatta in troppi rivoli incapaci di riempire un greto comune. Poco più di un mese fa, “asfaltando” l’ormai impresentabile e indagato Nicolas Sarkozy, il trionfo dell’ex premier François Fillon alle primarie della destra appariva come un trampolino abbastanza sicuro per farne il prossimo “monarca repubblicano”: esponente di una Francia profonda, conservatrice, iper-cattolica, assai poco europeista. In realtà, il suo programma thatcheriano, l’impegno ad alleggerire il peso dello Stato, la promessa del rigore economico, non ne facevano necessariamente il miglior “rassembleur” possibile vista la diffusa diffidenza a sinistra. Ma i sondaggi sembravano categorici, ne garantivano la pressoché certa vittoria al secondo turno nei confronti di Marine Le Pen. Ed ecco invece che la tagliola del “Penelopegate” – lo scandalo di una moglie stipendiata come assistente parlamentare senza mai aver messo piede all’Assemblée, e di altri soldi pubblici garantiti impropriamente a due figli, per un totale di un milione di euro – ha trasformato in un candidato più che azzoppato l’uomo della proclamata “dirittura morale” che voleva lasciare a casa mezzo milione di impiegati statali. Panico nel centro-destra, imbarazzato e privo di un “piano B”. Ma desolante è anche il campo di macerie lasciato a sinistra da François Hollande, l’unico presidente della Quinta Repubblica che abbia rinunciato a ricandidarsi perché sicuro di una sconfitta che polverizzerebbe la “gauche” tradizionale. Un Hollande indirettamente umiliato anche dalle primarie in casa socialista, con la netta affermazione di Benoît Hamon, il “Sanders francese”, sostenitore del reddito universale e della riduzione delle ore lavorative, una sconfessione dunque di quel “socialismo della ragione” perseguito dal presidente uscente e in realtà troppo appiattito su programmi di stampo liberale e antisociale. Dicono tutte le previsioni che fra meno di tre mesi, al primo turno delle presidenziali, almeno il 70 per cento degli elettori non voterà per Marine Le Pen. Gli eccessi nazionalisti, anti-europeisti e xenofobi del Front National inquietano ancora la maggioranza dei francesi. Che, in un’epoca di lacerazioni, cercano chi sappia porvi rimedio. Forse per questo motivo sono tentati – dicono ora i sondaggi – dalla candidatura indipendente del giovane “europeista controcorrente” Emmanuel Macron, il “social-liberale”, come egli stesso si definisce, consigliere e poi ministro economico di Hollande. Potrà essere l’uomo in grado di rappresentare quella “disciplina repubblicana” che nella primavera 2002 sbarrò la strada a Le Pen padre? Di certo, la Quinta Repubblica, nata sessant’anni fa per garantire stabilità, è divenuta oggi il regno dell’incertezza. Della confusione. E del disorientamento.

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