L'analisi

Catalogna, ora arriva il difficile

2 ottobre 2017
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Una certezza: il computo delle schede dello scrutinio – illegale secondo la Corte costituzionale – non ha nessuna rilevanza. Chi ha sfidato lo Stato centrale è in effetti favorevole alla secessione, chi vuol rimanere nel quadro dell’attuale Stato nazionale spagnolo non si è invece recato ai seggi. Nessuno oltretutto sa esattamente quante persone hanno voluto e potuto votare. La contrapposizione, in quella che è la maggior crisi istituzionale dal fallito golpe del 1981, è frontale. Il classico muro contro muro. Referendum?

Non c’è stato nessun referendum, hanno ribadito ieri all’unisono i rappresentanti del governo di Madrid: l’epiteto più ricorrente è stato quello di “farsa”.

Carles Puigdemont, il tribuno indipendentista, presidente della Generalitat de Catalunya, l’esecutivo regionale che governa con una risicata maggioranza, rivendica dal canto suo il successo elettorale denunciando la brutalità della repressione. Decine di migliaia di persone si sono radunate nelle strade e piazze di Barcellona e altre città catalane, intonando l’inno della comunità autonoma “Els segadors”, sfidando pacificamente le forze dell’ordine, la polizia nazionale e la guardia civil, mentre i mossos d’esquadra, la polizia regionale, hanno mantenuto un atteggiamento compiacente.

Le squadre antisommossa hanno interpretato in modo letterale le consegne intransigenti e strategicamente poco accorte del governo Rajoy: nessuna concessione all’illegalità, centinaia le persone ferite a manganellate.

Come le altre 15 comunidad autonome, la Catalogna beneficia di ampi margini di autonomia, in buona parte non molto dissimili da quelli che caratterizzano i cantoni elvetici: ha un parlamento, una polizia, amministra la giustizia e l’educazione, mentre il catalano è accanto al castigliano la lingua ufficiale. Uno statuto iscritto nella Costituzione del 1978, plebiscitata anche dai... catalani. Il punto dolente è la fiscalità e molto prosaicamente la rivendicazione potrebbe riassumersi ‘nell’egoismo delle tasse’, motivazione non molto nobile agli occhi dei più critici.

La Catalogna, che ha un Pil superiore alla Grecia o al Portogallo, ha, a seconda dei calcoli, un deficit fiscale tra il 2 e l’8% nei confronti di Madrid. Detta in altre parole, fornisce, come la Lombardia in Italia, più di quanto non riceva.

Sembra esser stata la crisi del 2008 ad alimentare la frustrazione catalana, anche se oggi la ripresa economica è una realtà. Puigdemont ha imbastito la sua campagna secessionista invocando il diritto dei popoli a disporre di sé stessi: una retorica poco convincente. Il diritto internazionale giustifica la secessione solo in caso di oppressione, colonialismo, minaccia di genocidio. Non è certamente quanto succede nella Spagna moderna. Il caso catalano non è neppure paragonabile a quello del Québec o della Scozia dove le consultazioni sono state decise con e non contro il governo centrale.

Ma da ieri le spinte secessionistiche potrebbero farsi viepiù irrefrenabili. Un ritorno a quella forte autonomia votata dal parlamento nel 2006 (ma invalidata dalla Corte costituzionale su richiesta del Partido Popular di Rajoy) sembra essere ora forse l’unico compromesso realistico per evitare il peggio.

Compito che dovrebbero assumere ora le Cortes generales, il parlamento nazionale, dove l’autodeterminazione catalana aveva comunque raccolto ben pochi consensi.

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