Commento

Apprendisti portieri dell’era digitale

(Gabriele Putzu)
21 novembre 2017
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Il digitale ha cambiato tutto, dappertutto. È una di quelle rivoluzioni epocali, pervasive, capaci di modificare la vita in contesti diversissimi e di farlo a livello planetario. Ce ne sono state poche così e soprattutto ce ne sono state poche (nessuna, vien da dire) tanto veloci come questa: dal primo personal computer agli smartphone in quarant’anni, con gli ultimi tre lustri che hanno portato novità a ritmi praticamente annuali.

Ed è forse questo il gran problema della rivoluzione digitale: offre a tutti grandissime potenzialità, ma lo fa in un tempo che non è fisiologico, né per l’essere umano né per la società da lui creata. Persino la rivoluzione industriale aveva dato modo a chi aveva appreso un mestiere di finire la propria vita professionale praticandolo. Oggi non è più così e il “semplice” arrivo dei computer ha determinato importantissimi cambiamenti nel mondo del lavoro e da lì in poi numerosi altri.

Così a prevalere nelle persone travolte da questo uragano è la fisiologica paura dell’ignoto, del cambiamento. La paura di lasciare le abitudini consolidate in decenni a favore di una nuova via. Ben vengano quindi iniziative come quella odierna: il primo ‘digital day’ elvetico dove una trentina di aziende, assieme ai consiglieri federali Doris Leuthard e Johann Schneider-Ammann, vogliono mostrare alla popolazione cosa significhi l’era digitale per la nazione e per i suoi cittadini. Un momento di riflessione, utile anche solo per capire che il cambiamento, oltre a molti rischi, è pure foriero di opportunità. Un istante di pausa per realizzare che fermarsi, magari perché paralizzati dal terrore, non è la soluzione, ma semmai il modo migliore per farsi travolgere. Perché continuare a fare le cose come si sono sempre fatte, aspettando che passi la moda del momento, dev’essere più o meno quello che si sono detti gli ultimi carrettieri quando si vedevano sorpassare dalle nuove locomotive a vapore. Solo che adesso i treni viaggiano a 300 chilometri all’ora e le novità alla velocità della luce.

Il discorso vale anche e soprattutto per il mondo dei media, confrontato come non mai con un panorama in rapidissimo mutamento, dove non solo cambia il modo di lavorare, ma anche gli strumenti che il pubblico usa per fruire dell’informazione. Ben inteso: che i vecchi mezzi di comunicazione siano morenti è tutto da vedere, ma non accorgersi che qualcosa è pesantemente diverso da prima vorrebbe dire non riuscire più a raggiungere il pubblico.

Per riuscire nell’esercizio serve la volontà di rimettersi in gioco, di capire cosa sta cambiando e come cambiare con la corrente. In redazione da qualche tempo, con il coraggio e l’impegno di tutti i colleghi a tutti i livelli, il confronto sulla questione è giornaliero, ragionato, generale nel tentativo di cogliere le sfumature del nuovo corso in modo da proporre un prodotto che non sia solo professionale e ineccepibile per i canoni del buon giornalismo, ma anche capace di raggiungere chi ci legge secondo le modalità che egli sceglie abitualmente. L’esercizio è continuo e costante, anche perché i cambiamenti nel quadro generale delle cose lo sono. Siamo tutti un po’ apprendisti in costante formazione; siamo tutti un po’ come portieri durante un rigore: prima o poi bisogna decidere dove tuffarsi. Bisogna farlo a intuito, cogliendo quei piccoli segnali che l’attaccante si lascia sfuggire, evitando però di aspettare troppo. Perché una volta calciato è sì facile sapere dove finirà il pallone. Ma a quel punto potrebbe essere impossibile raggiungerlo.

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