L'analisi

Allo stadio con Maduro

7 agosto 2017
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Sta suscitando un dibattito dal tenore tipico dei derby la crisi venezuelana. La diatriba alimenta una serie infinita di articoli e di prese di posizione, con sulla “front line” una sinistra dilaniata tra una componente ortodossa-conservatrice che si schermisce con le sue granitiche certezze dagli accenti complottistici e anti-americani, e una corrente dubbiosa, critica, che teme che certi accecamenti del passato si ripetano, mutatis mutandis, con l’America Latina.

Vittime, come in tutte le guerre, verbali e non, sono in primis le realtà fattuali che non possono essere inquadrate in una visione manichea, ideologicamente blindata. La complessità di un mondo multipolare dovrebbe portarci a privilegiare distinguo, sfumature, le tonalità grigie, più che vividi contrasti bianco-neri da guerra fredda.

Il chavismo, sorto alla fine degli anni 90, ha corretto con la sua Quinta Repubblica molte distorsioni e ingiustizie ereditate dai quattro decenni di governo di alternanza centro-sinistra/centro-destra e dai programmi di aggiustamento strutturale dettati dal Fondo monetario internazionale negli anni 90.

La politica bolivariana ha favorito le classi più povere riducendo le disparità sociali. Le modalità con le quali si è proceduto a questa positiva ridistribuzione della ricchezza sono tuttavia all’origine dell’attuale marasma economico: la rendita petrolifera è stata utilizzata in modo sconsiderato e clientelare, da un regime sempre più autoritario e militarizzato (1/3 dei ministri e governatori sono militari) a scapito della classe media e con la reazione, scontata, di un élite opulenta decisa a tutto pur di non perdere i propri privilegi.

La “maledizione petrolifera” ha poi fatto sì che il calo del prezzo del greggio mettesse il paese in ginocchio: Chavez e il suo epigono Maduro, che ne eredita gli errori, non hanno investito gli introiti petroliferi (95% delle esportazioni) nell’economia.

Dalle elezioni del 2015, l’opposizione (dagli estremisti di destra ai socialdemocratici fino ai dissidenti ex chavisti) è maggioritaria nel paese, e a giusto titolo denuncia il golpe istituzionale del presidente. Il voto per la Costituente (41% di partecipazione secondo il regime, clamorosamente smentito però dalla Smartmatic, la società di supporto tecnologico alla consultazione, che dimezza addirittura le cifre ufficiali) è stato off limits per osservatori indipendenti e giornalisti.

Tifo da stadio anche sul ruolo svolto dallo “zio Sam”: Washington, è indubbio, tende a svolgere un ruolo destabilizzante. Ma il fronte complottista è colto da amnesia sul capitolo dei rapporti economici proficui tra Stati Uniti e Venezuela, il cui petrolio viene raffinato in Texas e le cui azioni del settore dell’oro nero (quelle dell’ente statale petrolifero Pdvsa) sono in parte in mano alla “famigerata” Goldman Sachs.

Tradotto in termini ideologici, il caso Venezuela vede confrontati nella sinistra quanti ritengono che si possa rinunciare in parte ai principi dello stato liberale e alla libertà in nome della giustizia sociale e chi (compresi molti intellettuali latino-americani ed ex ministri di Chavez, come Oly Millan), memore dei passi falsi nella storia anche recente, considera che al giorno d’oggi le due componenti – libertà e giustizia – siano indissociabili. E che il rischio di derive autoritarie o dittatoriali in Venezuela sia purtroppo reale. Il siluramento da parte della Costituente della procuratrice generale Luisa Ortega (ex fedelissima di Chavez, oggi tra gli oppositori) sembra dar ragione a questi ultimi.

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