L'analisi

A chi giova la paura

5 settembre 2017
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A qualcuno converrà tutta questa paura. Non a quella parte del mondo (noi compresi) che, con ogni ragione, teme che l’escalation di provocazioni nordcoreane precipiti in uno scenario di guerra nucleare. A beneficiarne – più il primo per ora – sono semmai i due volti che l’incarnano: Kim Jong-un e Donald Trump. Kim, in qualche modo, per necessità; Trump dovendo riscattare un’immagine compromessa dalle manifeste lacune di autorevolezza e credibilità nell’esercitare il proprio ruolo.

Il despota nordcoreano si sta giocando la sopravvivenza: quella del regime, ma anche la propria, visto come vengono regolate le cose laggiù. Quella che spesso viene bollata come “pazzia” sembra perciò il deliberato azzardo di chi ritiene che la sorte di Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi sarebbe stata diversa se avessero disposto di un deterrente davvero in grado di tenere a bada i propri nemici. Lo conforta nella sua scommessa con la morte il caso di Saddam Hussein: gli Usa erano tanto consapevoli dell’inesistenza delle “armi di distruzione di massa” negli arsenali iracheni, che non esitarono ad attaccarlo. Ne deriverebbe che solo la dimostrazione inequivocabile di disporre di un arsenale atomico può tenere a bada le pulsioni dell’arcinemico statunitense.

Non solo: in qualità di padrone dell’ultimo Stato-cuscinetto lasciato in retaggio dalla Guerra Fredda, Kim sa bene che per indisposti che siano, i dirigenti cinesi non consentiranno (o lo faranno solo come scelta estrema) un collasso del suo regime: non tanto per l’eventuale afflusso di profughi alle frontiere, ma perché a quelle frontiere non vogliono assolutamente l’esercito sudcoreano e i suoi “consiglieri” nordamericani.

Infine, secondo una prassi arcinota, come ogni dittatore, Kim si affida alla rappresentazione della minaccia esterna per cementare (meglio: estorcere) il consenso nazionale e sedare (annientare) ogni eventuale dissidenza.

All’altro polo c’è un Trump che non può trascurare la straordinaria opportunità di mostrarsi degno commander-in-chief, offertagli da quell’arma di “distrazione di massa” raffigurata da Pyongyang. Non si tratta certamente di sottovalutare il pericolo rappresentato da Kim, o di ridurre a bluff quello che ormai quasi tutta la comunità scientifica internazionale ritiene una acquisita tremenda capacità di nuocere nelle sue mani. Si tratta piuttosto di considerare anche il capo della Casa Bianca tra gli elementi destabilizzanti: la pratica egomaniacale del potere (di qui il timore di “perdere la faccia”), il discredito internazionale che si è attirato, e la conduzione ondivaga dell’amministrazione, ne fanno più il detonatore della prossima guerra, piuttosto che il solutore, ruolo che la pretesa leadership mondiale degli Usa gli assegnerebbe.

Significa che la guerra è inevitabile, salvo accomodarsi a un ignobile appeasement con Pyongyang? No, ma di sicuro i margini di composizione della crisi sembrano esaurirsi senza rimedio, quanto più la ragionevolezza cede agli impulsi. Perché una sostanziale diversità rispetto al cosiddetto “equilibrio del terrore” della Guerra Fredda è che i conflitti tra i due blocchi avvenivano (non meno ignobilmente) per procura, e le rispettive dirigenze, pur accecate dall’ideologia, sapevano dove fermarsi (anche se a Cuba la mano parve sfuggire).

Oggi che il mondo non si divide in blocchi ma in frantumi, di quella “cinica virtù” non si vede traccia. E il “calcolo” attribuito all’uno e all’altro dei due tipi in questione potrebbe essere, per quanto ci riguarda, una forma di esorcismo con cui cerchiamo di sconfiggere la paura generata dalla loro sconsideratezza.

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